La festa è finita, adesso pensiamo alle cose serie. Soldi e potere, non necessariamente in quest’ordine. Donald Trump è andato in televisione per delineare il suo programma di governo, interessante soprattutto per le cose che non ha detto. Non ha parlato del muro al confine con il Messico. Non ha parlato del divieto per i musulmani di entrare negli Stati uniti. Né di deportazioni di massa. Per queste tre promesse elettorali ci sarà tempo. Ciò di cui ha parlato sono le cose che non richiedono un voto da parte del Congresso.

Nell’elenco: ritiro dai negoziati del trattato di libero scambio Tpp, cancellazione delle restrizioni alla produzione di petrolio e carbone, deregolamentazione (che interessa soprattutto le banche, non a caso le grandi beneficiarie dell’ottimismo di Wall Street dopo le elezioni). Quello che Trump prepara per i suoi quattro anni di mandato è un sequel della presidenza Reagan 1981-1985: tagli delle tasse per i milionari, spesa per le infrastrutture, atteggiamento aggressivo verso i partner commerciali (ora ce lo siamo dimenticato, ma Reagan introdusse sanzioni e manipolò il valore del dollaro contro il Giappone, l’amico/nemico di allora).

I repubblicani in Congresso, dopo aver fatto ostruzionismo per otto anni contro i progetti di Obama di riparare strade, ponti e ferrovie, ora sembrano pronti a dimenticare tutti i discorsi sui terribili pericoli del deficit di bilancio e a spendere per creare buoni posti di lavoro.

Quello di Reagan era un «keynesismo militare», quello di Trump potrebbe essere un «keynesismo edilizio», basato sulle consuete ricette dei palazzinari: abolizione o aggiramento dei vincoli ambientali e urbanistici, via libera alla finanza creativa, incentivi fiscali a pioggia per le imprese. «Una truffa» lo ha prontamente definito Bernie Sanders, che pure continua a sottolineare la disponibilità dei democratici in Senato ad appoggiare un piano di ricostruzione delle obsolete infrastrutture americane, trascurate da decenni.

Si parla di investimenti per 1.000 miliardi di dollari ma è difficile che il Congresso a maggioranza repubblicana sia in grado di varare un piano così vasto in tempi brevi, anche perché Camera e Senato avranno il loro da fare per mantenere le promesse di cancellare ogni singolo provvedimento dell’era Obama. Per esempio, l’odiatissima razionalizzazione del sistema sanitario, l’Affordable Care Act, non può essere cancellato con un tratto di penna senza privare di cure 20 milioni di americani e provocare un terremoto di Borsa (la spesa sanitaria corrisponde a circa il 16% del Pil degli Stati Uniti).

Ci vorranno quindi un paio d’anni per trovare una soluzione che non sia immediatamente percepita come una catastrofe per i lavoratori a reddito medio-basso, tanto più che nel novembre 2018 si vota per Camera e Senato e le elezioni di metà mandato sono sempre difficili per il partito del presidente.

Oltre alla sanità, l’amministrazione Trump dovrà occuparsi di nominare un giudice per il posto vacante alla Corte Suprema e questo potrebbe essere più difficile del previsto se in Senato i democratici ricorreranno all’ostruzionismo, com’è prevedibile. La maggioranza repubblicana, 52 a 48, potrebbe non essere sufficiente per raggiungere l’obiettivo di ricreare una solida maggioranza conservatrice nella Corte, che è stato un tema fortemente mobilitante per gli elettori repubblicani, terorizzati dall’idea di un potere giudiziario nelle mani dei democratici per un’intera generazione se Hillary Clinton fosse stata eletta.

Le promesse elettorali sono facili, le soluzioni legislative difficili, e in materia di immigrazione tutto è ancora più complicato. Trump ha fatto degli immigrati, in particolare dal Messico, il capro espiatorio ma non è chiaro come la nuova amministrazione intenda concretamente affrontare il problema.

Spettacolarizzare le espulsioni di chi ha commesso reati non costa nulla, rimandare in America Latina centinaia di migliaia di bambini e ragazzi che hanno seguito i genitori alla ricerca del Sogno americano potrebbe essere un boomerang.

Senza contare che immigrati ci sono perché fanno dei lavori umilianti per pochi dollari al giorno: se li si caccia le lobby dell’agricoltura si faranno sentire ancora più rapidamente delle organizzazioni di difesa dei diritti civili.