Un romanzo può essere notevole anche per quello che non è, per la strada che non prende. A questa qualità non sempre corrispondono la riuscita, cioè la combinazione felice tra l’idea e l’espressione; e la tenuta, cioè la capacità di parlare anche dopo che il contesto di partenza è sbiadito. Molti scrittori italiani importanti del secondo Novecento hanno accettato questo rischio: parlare con voce diversa dagli altri, a costo di non essere uditi. In genere sono proprio quelli che ci impegniamo a far resistere con i mezzi della critica letteraria, perché da soli non ce la farebbero, non verrebbero più letti. Scivoleremmo sullo specchio di uno stile che può apparire ghiacciato ma che in origine poteva esprimere passione intellettuale, impegno ideologico; o, al contrario, resteremmo invischiati nella pania di racconti senza trama, affascinati dagli incanti (o stuccati dall’oltranza) della forma.

L’ultimo romanzo di Emanuele Trevi, Il popolo di legno (Einaudi, pp. 188, euro 18,00) potrebbe essere o diventare un libro simile, da prendere in considerazione perché non è: non è il Grande romanzo italiano né la storia famigliare di un io che si legittima sullo sfondo della Storia nazionale; non è visionario né, propriamente, politico; non è auto- , né docu- e neppure non fiction. Ma c’è un’altra cosa che Il popolo di legno non è, né penso voglia essere: un bel romanzo. Non lo è, nel senso che non concede quel che compiace il lettore: procedimenti lineari d’identificazione, rispecchiamenti narcisistici, pretesa di detenere e dichiarare verità storiche e sociali, pienezza (o manierismo) nella costruzione.

A lusingare il pubblico non interviene neppure la facile riconoscibilità del segno d’autore. Al contrario: Trevi non si ripete da un libro all’altro. Il popolo di legno è, almeno in superficie, lontano per esempio da Qualcosa di scritto (2012), il saggio narrativo incentrato su Pasolini. Ciò che più differenzia i due libri di Trevi è il grado d’implicazione tra scrittore, narratore e protagonista: se Qualcosa di scritto tendeva ad avvicinare le tre istanze, Il popolo di legno evade le forme semplici di adesione. Agiscono con questo scopo i filtri stranianti, umoristici, a tratti beckettiani spesso applicati al racconto e presenti fin dall’incipit: «Nemmeno il Topo, pensò quella mattina il Topo scrutando la sua faccia gonfia di sonno nello specchio sopra il lavandino, nemmeno il Topo può sapere come finirà questa nuova storia, che pure – non c’è dubbio – ha messo in moto lui».

Gli sbalzi nel punto di vista di un personaggio che non sa, o sa di non sapere, intensificano l’effetto di rarefazione che il romanzo trasmette, soprattutto in relazione all’ambiente.
La vicenda si svolge in una Calabria governata dalla malavita, ma la rappresentazione del contesto è assai poco tipica, poco caratterizzata. La geografia fisica e sociale del romanzo non è infatti realistico-didascalica, ma simbolico-esemplare: la Calabria è un inferno freddo da cui i personaggi vengono consumati. Perfino i nomi vengono mangiati: i protagonisti sono identificati sempre e solo attraverso soprannomi come ‘il Topo’ e ‘il Delinquente’, o designazioni generiche come «gli Zii». Il Topo è un uomo dotato di fascino e capacità oratoria (un tempo era un prete, ma ha lasciato l’abito per Rosa, la donna dalla muta e vorace carnalità con cui vive), qualità che esercita prima di tutto sul Delinquente.

Amico d’infanzia del Topo, ne ha sempre subito l’attrazione; elemento debole e passivo della coppia di personaggi, il Delinquente viene però da una potente famiglia della ’ndrangheta (gli Zii), che l’ha messo a dirigere un’emittente locale, Tele Radio Sirena, per la quale il Topo conduce una trasmissione intitolata Le avventure di Pinocchio il calabrese. Le prediche anticonvenzionali del Topo avranno un successo tale da raggiungere e impensierire gli Zii, che metteranno fine all’impresa con i mezzi più radicali e brutalmente prevedibili.
I riferimenti a un contesto di realtà riconoscibile – programmi televisivi, organizzazioni criminali, nomi di luoghi – sporgono da una superficie dai connotati allegorici, che cristallizza e astrae la vicenda. Ciò fa sì che il senso non coincida con un messaggio, con un’affermazione, ma con la sua assenza. Tra gli autori di Trevi c’è Leopardi ed è anche per questo che, leggendo Il popolo di legno, viene da pensare ai Paralipomeni della Batracomiomachia; il riso funereo con cui i morti rispondono a Leccafondi (un topo, per l’appunto), disceso negli inferi per interrogarli, è l’ideale presupposto del nichilismo che attraversa Il popolo di legno: «la vita umana è così intollerabile da giustificare qualunque pessimismo. (…) Ma a un livello ancora più profondo, più vicino al nucleo, la vita umana fa ridere».
Quali che siano i possibili ascendenti, all’interno della storia due sono i riferimenti letterari espliciti: Pinocchio e Saviano. Il popolo cui il predicatore si rivolge è di legno, come il burattino; ma il senso dell’itinerario raccontato da Collodi viene rovesciato: il valore di liberazione sta nel rimanere legno, contro le arti e i desideri della vera nemica di Pinocchio, la Fata. È una lettura anti-edificante che si lega alla citazione in chiave polemica dell’altro idolo letterario: «Solo allora il Topo considerò il titolo che campeggiava sopra la sua foto a caratteri maiuscoli: / l’anti-saviano / Saviano, lo sapeva. Il Delinquente gliene aveva parlato migliaia di volte. (…) Nelle prime righe dell’articolo appariva la parola ’ndrangheta. Nessuno in Calabria, a meno che non voglia fare piacere alla gente del Nord, usa la parola ’ndrangheta, non la pensa nemmeno».

Gli obiettivi, più che Gomorra e il suo autore, sono il racconto che ha come movente e fine la realtà, ovvero la narrazione immediatamente realistica della realtà, e l’idea che il romanzo (il bel romanzo) di una vita possa avere un valore esemplare nel restituire e far comprendere quella realtà: «Tra tutte le frottole che gli era capitato di ascoltare nella vita, non ce n’era una che disprezzava quanto l’idea, degna di imbecilli senza rimedio, che la vita fosse una specie di romanzo»; «Ma noi non è che la schifiamo o la insultiamo, la realtà. (…) Noi, più semplicemente, della realtà ce ne fottiamo. Non c’è nulla che non sia la realtà, su questo siamo tutti d’accordo. (…)Ma tutto questo entusiasmo a cosa serve? cosa significa? E soprattutto: perché devono dare il tormento a noi calabresi»?
I calabresi, il popolo di legno a cui il Topo comunica la propria invettiva, sono figure dell’insofferenza verso rappresentazioni e stereotipi che danno del reale una lettura tranquillizzante, anche quando denunciano crimini e abusi. Qui sembrano saldarsi l’ufficio straniante assegnato alla letteratura e la strategia non realistica che Trevi sceglie per comunicare i suoi significati: strategia assecondata a tratti da slanci lirico-descrittivi che apparirebbero concettosi, a volte perfino kitsch, se li estraessimo dalla poetica narrativa del racconto: gli occhi neri «come due onici», che quando si muovono si trasformano in «lembi crepitanti di seta agitati dal vento»; la splendida villa circondata da un giardino «dove l’azzurro del cielo e del mare si infilava ogni giorno, con la pazienza di un pittore di miniature». Ma quando l’inchiesta e la Storia tendono a diventare repertorio, come accade ormai spesso nel romanzo italiano ed europeo, un libro di cui vale la pena discutere non è necessariamente un bel libro, ma è quello che passa a contropelo la realtà, come fa Il popolo di legno.