«Come vanno i rapporti con Beppe Grillo? Benissimo». A margine dell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione Virginia Raggi smentisce ogni tensione col leader del M 5S. «Leggete il blog», dice ai giornalisti che le chiedono come Grillo abbia preso la notizia dell’indagine a suo carico. Rimanda al post che lei stessa ha appena diffuso sui social network e che ha la funzione di mettere a tacere le voci che descrivono un clima teso tra la sindaca e il fondatore.
«Virginia Raggi ha adempiuto ai doveri indicati dal nostro codice etico informando tempestivamente il movimento e i cittadini dell’invito a comparire ricevuto» dice Grillo. «Lei è serena e io non posso che esserle vicino in un momento che umanamente capisco essere molto difficile», prosegue. Le sue parole servono soprattutto a replicare a un articolo del Corriere della Sera e alle voci che circolano a palazzo Senatorio che raccontano di una sindaca affranta e di una dura conversazione tra Genova e il Campidoglio. «La ricostruzione della telefonata pubblicata oggi è totalmente falsa, nonché ridicola», precisa ancora Grillo.

Comunque sia andata, si va delineando il percorso a ostacoli che la sindaca si trova davanti. I capi di imputazione sono due: falso in atto pubblico e abuso di ufficio. Se dovesse scattare quest’ultima fattispecie di reato, si rientrerebbe nei casi previsti dalla legge Severino per la sospensione dei sindaci. La prima accusa, quella del falso in atto pubblico, diventerebbe motivo di sospensione se la condanna dovesse superare i due anni.

Le due accuse sono complementari. Se Raggi avesse permesso al fratello di Raffaele Marra di ottenere quello che i pm definiscono un «ingiusto vantaggio patrimoniale», incapperebbe nell’abuso d’ufficio. Se la sindaca si difendesse dicendo che la pratica della promozione di Renato è stata gestita da Raffaele, allora ammetterebbe indirettamente di aver dichiarato il falso all’Autorità anticorruzione di Cantone, quando si era trattato di dribblare il rischio di conflitto d’interesse in capo a Marra.

I giudici sembrano voler procedere al giudizio immediato, cosa che confermerebbe la loro convinzione, forti di alcuni messaggi che proverebbero il ruolo di Marra che era stato denunciato all’epoca delle sue dimissioni dall’assessore al bilancio Marcello Minenna.

I legali della sindaca hanno appreso della sostanziale ammissione dell’assessore al commercio: Adriano Meloni, nella cui struttura rientra l’ufficio del turismo che doveva essere assegnato a Renato Marra, avrebbe ammesso che la nomina era stata indicata dal fratello Raffaele. Dettaglio significativo: Raggi non si avvale della tutela dell’avvocatura del comune, il che è ulteriore segnale di frattura con pezzi importanti della macchina burocratica romana. Dopo le dimissioni del ragioniere generale e le parole di fuoco dell’ex responsabile dell’avvocatura su Marra, lo scontro con i revisori dell’Oref e la vertenza legale dei dirigenti comunali, ecco un altro sintomo di sindrome da accerchiamento.

La partita si gioca su un doppio binario: quello romano e quello nazionale. In Campidoglio, i consiglieri fanno professione di compattezza e gli assessori giurano che le attività procedono serenamente. «La giunta ha appreso la notizia dell’indagine con grande tranquillità», ha detto ieri il vicesindaco Luca Bergamo. Ma c’è un livello che ragiona su un’altra scala. Il fatto è che il buon viso a cattivo gioco di Grillo e i rapporti complicati tra M5S e giunta romana dipendono molto dalla complessa tempistica della politica. Se davvero il pronunciamento della Consulta sull’Italicum ha reso più vicine le elezioni, i vertici pentastellati sperano che resista una giunta ormai sottratta alle mire accentratrici manifestate nei primi mesi dalla sindaca. Ma il gioco si fa via via più scivoloso. E il fattore tempo è sempre più decisivo, come dimostra la lettera indirizzata ieri dal blog al Quirinale per chiedere che si voti al più presto.