Non è un refuso tipografico il titolo dato all’articolo, ma la scelta di cambiare angolo visivo e di non affrontare la crisi della sinistra dal lato del soggetto politico che deve produrre i cambiamenti e le nuove forme di aggregazione.

Quindi non immaginare in maniera autoreferenziale le forme che tale soggetto politico deve assumere ma farlo in rapporto ai nuovi aggregati sociali, alle contraddizioni economiche e sociali prodotte dalla globalizzazione, ai bisogni e alle nuove povertà ma anche alle nuove forme di desiderio e di domanda di trasformazione che la nuova sinistra deve poter intercettare e portar dentro il progetto di mutamento di cui si fa carico.

Strano, infatti, che mentre l’intera cultura del Novecento si sia dedicata alla decostruzione del soggetto, nulla o poco di questa ricerca sia passato nelle forme organizzative e nell’immaginario politico della sinistra. A cominciare dalla consapevolezza che qualsiasi forma di conoscenza non è oggettiva e frutto di un soggetto autonomo e dotato di un punto di vista privilegiato. Ma al contrario, in una visione partecipata della ricerca, tanto l’oggetto che il soggetto indagatore sono posti in un rapporto d’interdipendenza reciproca e la ricerca modificherà sia il soggetto conoscente che l’oggetto dell’indagine.

Si tratta come si vede non solo della necessità di mutare i temi e le urgenze di un programma di sinistra, come ci ricorda il decalogo di Norma Rangeri e com’è stato anche autorevolmente detto in più articoli comparsi in questo giornale. E’ anche necessario mutare i linguaggi e i metodi “linguistici” di approccio al problema.

Alcuni elementi di critica, legati alla contingenza politica italiana, sono stati ben esposti da Piero Bevilacqua nell’articolo «Cercare l’unità, regolare il dissenso», comparso sul manifesto del 9/8/2015. Un articolo che aveva il pregio d’enucleare in poche vibranti proposizioni l’impasse di almeno vent’anni di tentativi di fondare una forza elettoralmente significativa a sinistra del Pd (e prima del Pci e dei Ds, ecc..).

Particolarmente pregnante era nell’articolo la diagnosi dello scollamento tra un ceto politico e intellettuale a sinistra del Pd e il “popolo” che dovrebbe costituire il corpo politico che dà senso e deve ottenere rappresentanza in questo progetto. Vecchio vizio del giacobinismo italico se Vincenzo Cuoco parlava, già nel Settecento, di rivoluzione passiva. La forza di una soggettività agente deve perciò passare oggi attraverso un mutamento dei linguaggi e un accantonamento della tentazione identitaria (la mia analisi, il mio linguaggio, il mio gruppo) e, come sottolineava Bevilacqua, trovare degli oggetti politici comuni e anche delle procedure semplici e vincolanti che garantiscano il diritto della minoranza ad esprimere il proprio dissenso e a contribuire alla formulazione del progetto, senza essere emarginata e senza cadere nel settarismo. E impediscano alla maggioranza di arroccarsi in se stessa. Fenomeni che abbiamo visto all’opera soprattutto nel momento delle scelte delle candidature nei vari cartelli della sinistra critica di questi ultimi anni.

Si tratta nientedimeno di ripensare e di riarticolare, sin dal progetto, un nuovo rapporto tra democrazia diretta, democrazia della prossimità e democrazia della rappresentanza. Un atto concreto potrebbe essere che, prima di aspettare probabili scioglimenti o auspicate riaggregazioni, le varie organizzazioni a sinistra del Pd esplicitino quanta parte delle proprie strutture organizzative, del proprio sapere delle e nelle istituzioni, dei propri finanziamenti e del tempo dei propri militanti, intendono mettere a disposizione del progetto comune.
Bevilacqua individuava anche un contenuto prioritario nella questione giovanile e del lavoro. Un contenuto che mi sento di condividere con una proposta. Attualmente l’intero comparto dell’istruzione, dalla scuola primaria passando per la scuola secondaria e l’università, un intero settore sociale e un’istituzione dello stato di diritto liberale è attraversato da tensioni e da una overdose di processi ripetuti di “riforma” . E’ un caso se ogni ministro dell’istruzione per reagire alla propria nullità nella compagine governativa vara una riforma? Ed è un caso se ogni leader, una volta superato un momento di crisi interna e di immagine nel paese, come è accaduto per Renzi dopo le regionali, vara delle riforme che sono “epocali” solo perché spingono ancora più avanti l’applicazione del liberismo selvaggio in un settore che dovrebbe esserne esente? Riducono un diritto costituzionale e della modernità ad una prestazione da acquistare, trasformano un lavoro altamente innovativo in una variabile dipendente dalle compatibilità economiche?

Che la sinistra critica elabori delle risposte alternative al liberismo selvaggio a queste domande e avrà contribuito a dare una mano concreta alle lotte del settore e avrà seminato in un corpo sociale che potrebbe diventare parte del suo “popolo”.