Odiatelo, se vi pare, ma il talento non si discute. 25 anni e 5 film più un videoclip. Come un sogno erotico della cinefilia più radicale, Xavier Dolan incarna un’idea di cinema splendidamente estremista, citazionista e personale, formalista e poetica, melodrammatica e ironicamente hip. Con una differenza macroscopica: Dolan al cinema ci crede. E si vede. Sin dal suo primo lungometraggio, J’ai tué ma mère a soli 20 anni, scritto e diretto con un entusiasmo contagioso, un edipico e batailleiano rapporto di odio-amore-odio fra madre e figlio, incurante di tutte le analogie e similitudini che il pubblico avrebbe potuto trarre osservando la sua situazione biografica e familiare. Sfruttando tutte le tonalità dello stridulo e rude quebécqois, Dolan si tuffa senza remore in un brutale gioco al massacro da camera. Facile dire, poi, «esercizio di stile». Di vocazioni cinematografiche così evidenti non è che se ne siano poi viste tante nell’ultimo decennio. E comunque le eventuali debolezze di questo esordio presentato con tutti gli onori del caso alla Quinzaine, scompaiono già con il successivo Les amours imaginaires, svelato invece nell’ambito di Un certain regard. Solo un anno è trascorso. Eppure tale è la distanza – e la prossimità – fra i due film che si potrebbero misurare in anni luce. Il pantheon dei padri e numi tutelari s’amplia. Oltre a Cocteau, Bertolucci, Truffaut, Garrel è convocato Wong Kar-wai del quale Dolan omaggia i pizzicato di In the Mood for Love e, addirittura, Leone per l’abilità calligrafica di calibrare un triello sentimentale di inusitata intensità. Niels Schneider, apparso brevemente nel film d’esordio, diventa l’oggetto del desiderio, indossando occhiali rossi come Sue Lyon. Nel finale, tocco di perversione fetish, Niels si rispecchia in Louis Garrel, come un doppio sogno che s’avvita su stesso vertiginosamente. Dolan gioca con il montaggio come se il film fosse un nastro magnetico da giuntare con pezzi di cuore e frammenti di retina.

Retto dai beat celibi di The Knife, Fever Ray e dallo sguardo della sublime Mona Chokri che divora con gli occhi il biondo Nicolas il quale rimanda al Björn Andrésen di Morte a Venezia, Les amours imaginaires è una folgorazione per tanti ma la base oltranzista dei diffidenti non trova altro che motivi di conferma per i propri sospetti. Eppure Dolan, con soli due film, è già un cineasta importante. Un talento puro.Come conferma il successivo e superbo Laurence Anyways, presentato ancora nel Certain regard. Film zeppo di trovate strabilianti dove Dolan crea ancora una volta un vero e proprio mondo. Al punto che si occupa dei costumi ma anche del montaggio, suono e produzione.

Un ossessivo compulsivo? Forse. Ma basta dare uno sguardo al film per comprendere come Xavier Dolan sia profondamente innamorato del processo di realizzazione del film per allontanare da lui e dal suo metodo di lavoro qualsiasi sospetto di sterile controllo anaffettivo kubrickiano. Con Mommy, dopo il detour hitchcockiano di Tom à la ferme, Dolan torna dalle parti del suo esordio. Mommy è un folgorante tour de force emotivo nel quale Dolan ha curato addirittura i sottotitoli inglesi che accompagnano la versione originale quebécqois.

La madre, ancora una volta, è l’epicentro erotico e drammatico del racconto. Lui, figlio difficile dal cuore d’oro, lei versione canadese e working class del white trash statunitense, vorrebbe tenerlo con sé e vivere la sua vita. Ma non è facile. E poi c’è lei, la vicina di casa, sulla quale il figlio può trasferire le attenzioni sessuale che vorrebbe invece dedicare alla madre. Nelle mani di qualunque altro regista una materia simile sarebbe stata destinata al fallimento certo. In quelle di Dolan, invece, tutto trova una magnifica evidenza folgorante, come quando l’1:1 si allarga a un vertiginoso 2:35.1 perché il 2 è diventato 3. La precisione con la quale Xavier Dolan permette a ogni articolazione del suo film di respirare e vivere davanti allo sguardo incantato dello spettatore, è magistrale. L’abilità con la quale il regista modula il forte e il fortissimo dei dialoghi, quasi tutti urlati da interpreti allo stremo delle forze, e la precisione della macchina da presa di Andrè Turpin, premiato per il suo lavoro nel corso dell’ultima edizione di CameraImage a Bydgoszcz, fanno di Mommy un film che si può ritenere un punto di riferimento del melodramma contemporaneo sin da ora.

Che poi il regista affermi che i suoi veri modelli filmici siano Batman Returns e Mamma ho perso l’aereo piuttosto che Godard e Fassbinder, non fa altro che rendercelo più simpatico. Il ragazzino preso a fucilate nell’incipit di Martyrs è ormai un nome di riferimento del cinema contemporaneo. Se saprà resistere alla tentazione della maniera di se stesso, è veramente difficile immaginare dove possa giungere domani il cinema di Xavier Dolan.