Il tema che in questi giorni sta catalizzando l’interesse dell’opinione pubblica è il sostegno che la Brexit ha raccolto nella working class delle regioni storicamente pro-labour, il Nord dell’Inghilterra e il Galles. È molto di più che una questione accademica: è un tema politico destinato a interessare tutte le forze di sinistra e di centro-sinistra. La lettura dominante, caldeggiata dai “progressisti” (vedi Rob Ford sull’Observer del 27 giugno; Michele Serra su La Repubblica del 25 giugno), è di tipo socio-culturale e generazionale: l’elettore del Leave è anziano, conservatore, “rimasto indietro” rispetto alla svolta abbracciata negli ultimi trent’anni dai più giovani, istruiti, progressisti e metropolitani. Questa ricostruzione lusinga e consola la “middle class globalizzata”, ma pone un problema di strategia politica: afferma l’esistenza di un fossato che divide gli apparati della sinistra dalla massa dell’elettorato, una distanza che può colmarsi solo lentamente, aspettando che muoiano ogni anno 500.000 di questi elettori.

La correlazione fra attitudini socio-demografiche e comportamenti di voto è analizzata accuratamente. Ma sorvola sul contesto economico nel quale è maturato il risentimento di una working class disaffiliata, sempre più deprivata dei beni e servizi necessari per la vita quotidiana (l’economia fondamentale o del benessere materiale): una fetta di popolazione che per la sinistra è sempre più difficile chiamare al voto. In questo quadro, irrobustire la disponibilità di beni e servizi fondamentali per il benessere materiale è una strategia necessaria per ricostruire l’affiliazione. Non lo si riesce a comprendere decontestualizzando gli atteggiamenti e i comportamenti.

Il voto a favore di Brexit e per l’Ukip è un voto identitario, visceralmente ostile all’immigrazione. Più precisamente, si tratta di un razzismo soft, imperniato sull’identità: un razzismo che, paradossalmente, fiorisce in luoghi a bassa o nulla immigrazione, come le aree rurali del Galles o le zone residenziali della East Coast. A differenza del razzismo hard non è basato sulla discriminazione etnica. Il razzista soft non vuole impedire l’accesso ai servizi a un gruppo specifico, vuole che nessuno vi acceda se non i “nativi”.

Questo fenomeno ha trovato linfa in un terreno ben preciso. La “politica dell’identità” ha fatto presa sui soggetti rimasti orfani delle appartenenze collettive, sempre più esposti alla precarietà lavorativa e alla riduzione del welfare, all’individualizzazione del lavoro e ai cambiamenti disgreganti che hanno investito la grande impresa e il sindacato di massa. Oggi, nel Regno Unito, le imprese con almeno 200 addetti sono meno di 2.000 e un terzo della forza-lavoro nel Galles lavora in micro-imprese con una media di meno di due addetti. Circa 800.000 lavoratori hanno contratti a zero ore, e il numero cresce di 100.000 unità all’anno. I sindacati possono fare affidamento solo sul pubblico impiego, perché nel settore privato solo il 15% dei lavoratori è sindacalizzato.

A pesare sull’esito del voto non è stata una carenza di leadership politica. È vero, la posizione del partito laburista non è stata sempre chiara, ma lo stesso non si può dire dei sindacati, che si sono espressi in modo inequivocabile: votare Remain significa mantenere le garanzie della legislazione europea sul lavoro.

Questo messaggio però non ha convinto una forza-lavoro flessibilizzata, sempre meno sindacalizzata e sempre più precaria. I partiti di massa, dal canto loro, vivono una crisi di rappresentanza e la nuova dirigenza non proviene certo dagli strati marginali della società. Le organizzazioni religiose danno una risposta ai bisogni quotidiani, anche degli immigrati, ma sono marginali nel dibattito pubblico. Per questo la working class è allo sbando in una società senza appartenenze collettive né coordinate, che fa sempre peggio in termini di accesso alla casa, alla sanità, all’istruzione, ai servizi di cura.

Addebitare la brexit al razzismo identitario dei nativi, dunque, è una spiegazione del tutto parziale, che lascia in ombra un insieme di questioni complesse, come la dismissione delle case popolari, il budget del servizio sanitario nazionale, i tagli imposti dalle politiche di austerità. La consapevolezza su tutto questo è pressoché nulla: appena il 30% degli intervistati della working class riesce a scegliere la definizione corretta di Pil da una lista di tre risposte; e la maggior parte dell’informazione televisiva distorce e confonde.
Lo slogan “riprendiamoci il controllo” suona paradossale, perché in realtà da molto tempo le working classes non hanno più alcun controllo sulle loro vite. Le nuove élite saranno sempre più un ceto di laureati a Eton, che porteranno avanti le medesime politiche neoliberali, condite con la ricetta dell’austerity.

La scelta Leave o Remain è certamente correlata all’età, all’istruzione e alle altre variabili suggerite dalle analisi socio-culturali. Ma tutto questo dev’essere letto nel contesto. Se i più anziani sono a disagio è perché ricordano di essere stati parte del vecchio mondo della working class tutelata, percepiscono quel che sta accadendo oggi ai loro nipoti e certamente idealizzano il passato. Quanto ai loro nipoti, siamo certi che abbiano compiuto una svolta culturale irreversibile? O dobbiamo temere che, se la congiuntura economica peggiorerà e le loro aspettative resteranno deluse, si rifugeranno anch’essi nelle identità cercando capri espiatori?

Denunciare gli atteggiamenti sociali degli anziani e dei marginali è un esercizio inutile; quel che serve, invece, è porre rimedio ai problemi da cui emergono, creare sicurezza e costruire nuove appartenenze collettive. Non basta distribuire fondi ai contesti locali per infrastrutture e per “grandi opere”, o dare un po’ di sostegno ai redditi individuali. Il voto alla Brexit dimostra che non funziona. Certamente non ha funzionato per l’Unione Europea, i cui milioni non hanno fatto breccia nel Galles perché non hanno cambiato la vita quotidiana; e certamente non ha funzionato per il governo del Regno Unito, che ha esentato i pensionati dai tagli al welfare ma non ha costruito legami sociali ed è stato punito con la Brexit.

Le prospettive immediate sono fosche. La promessa di fermare i flussi migratori è ben difficile da mantenere. Le riduzioni consistenti non sono sostenibili economicamente, perché gli immigrati svolgono una quantità di lavoro indispensabile nel Regno Unito; d’altra parte sono impraticabili politicamente, perché i britannici, per continuare ad accedere al mercato europeo dovranno, in cambio, finanziare l’Unione Europea e accettare il libero movimento. La working class del Nord avrà da ridire sulle promesse mancate e questa reazione è l’opportunità su cui l’Ukip investe.

C’è una controstrategia possibile, però: cogliere l’opportunità creata dal decentramento a vantaggio delle “Nazioni Celtiche” e delle regioni metropolitane. La working class vulnerabile e individualizzata è distribuita principalmente nelle aree svantaggiate del Galles e delle città del Nord. I risultati elettorali mostrano che la maggior parte dei lavoratori senza appartenenze vive in un’area urbana che gode di devolution: nel Galles le Valleys, nell’area di Manchester le città settentrionali come Oldham e Rochdale. Perché non fare, insieme a questi elettori, qualcosa che per loro abbia un significato reale?

Due proposte: 1) Elevare la disponibilità di beni essenziali di welfare, come le case e la cura per gli anziani, su scala regionale e locale. Molti obiettivi nazionali, come la transizione alla green economy e la riduzione della dipendenza da fonti fossili, restano fuori discussione finché la destra è a Westminster. Ma ci sono molte cose che si possono fare su scala locale per dare un contenuto sociale alla devolution: Oldham e le Valleys non avranno mai gli hipsters e le “classi creative”, ma non c’è alcun motivo per cui non possano sperimentare servizi di cura più innovativi. 2) Coinvolgere le comunità locali nella progettazione e nella gestione dei servizi. Questa è una richiesta rivoluzionaria: il welfare e la sicurezza devono essere attività che coinvolgono le persone e ricostruiscono le appartenenze. Non si può trattare di mera redistribuzione alla maniera di Piketty, ovvero un reddito di base e provvidenze simili, perché distribuire denaro alle persone non risolverà il problema, e d’altro canto il welfare non può più essere concepito alla maniera di Beveridge come qualcosa che gli esperti fanno per le masse. Abbiamo bisogno, piuttosto, di innovazione sociale radicale, di un intervento nell’economia fondamentale, perseguendo finalità di benessere sociale comprensibili a tutti: è solo così che si può superare la sfiducia nella politica e ricostruire la rappresentanza.
*Traduzione di Filippo Barbera e Angelo Salento