Gaetano Pascale, 47 anni, da più di un anno è presidente di Slow Food. Non ha certo bisogno dell’avvocato difensore, ma un problema c’è: per la prima volta l’associazione internazionale no profit impegnata a ridare il giusto valore al cibo si trova costretta a giustificarsi per quella che è senza dubbio la scelta più controversa della sua storia quasi trentennale. Sta cominciando l’esposizione universale e Slow Food ha accettato la sfida. «Ci occupiamo di cibo da trent’anni, non è che abbiamo aspettato l’Expo».

Veniamo al dunque. Cosa ci fate di fianco a McDonald’s?

Purtroppo non abbiamo potuto decidere chi poteva o non poteva partecipare all’Expo. Anni fa, quando è nata l’idea dell’esposizione universale, ancora prima che venisse assegnata a Milano, come Slow Food abbiamo cercato di far prevalere alcune suggestioni che nulla avevano a che fare con le politiche delle multinazionali. Oggi, purtroppo, possiamo dire che i nostri suggerimenti non sono stati presi in considerazione. Carlo Petrini si era anche esposto in prima persona, con accenti molto polemici.

A maggior ragione, perché partecipare?

La nostra associazione ne ha discusso a lungo. Innanzitutto abbiamo pensato che l’evento ci sarebbe stato in ogni caso, si trattava di decidere se in quel contesto avesse senso dare voce a chi il pianeta sta cercando di nutrirlo veramente, e certo non per soddisfare una logica di profitto. L’alternativa era restare fuori da Expo col rischio di riuscire a comunicare solo con il nostro pubblico, stando dentro invece faremo da megafono proprio per sottolineare le contraddizioni più stridenti di questo evento.

Che ruolo pensate di poter ricoprire laddove sicuramente dettano legge le multinazionali dell’agroalimentare?

Siamo in mezzo a dei giganti, lo sappiamo, ma siamo convinti che anche loro in qualche modo siano tenuti ad ascoltarci. Non riusciremo certo a demolirle, e non ne abbiamo mai avuto l’intenzione, ma credo che anche le multinazionali potrebbero essere costrette a diventare un po’ più virtuose. Nei prossimi sei mesi le persone che visiteranno l’Expo saranno tantissime, in fondo è chi decide come fare la spesa che determina il successo di un modello produttivo. Diffondere conoscenza e consapevolezza è molto importante e noi avremo l’opportunità di avvicinare le persone meno preparate, di solito abbiamo a che fare con un pubblico più consapevole ma numericamente inconsistente rispetto al numero di visitatori previsti per l’Expo. Questa considerazione ci ha convinto ad essere presenti. Ma non solo. La mancata concretizzazione di un modello alimentare più sostenibile è dovuta anche al fatto che le normative oggi penalizzano le produzioni su piccola scala per favorire le grandi industrie. Quale migliore occasione potremmo mai avere per incontrare i soggetti istituzionali chiamati a legiferare sul comparto agroalimentare? Con loro vogliamo confrontarci.

Non crede che per Slow Food possa subentrare qualche problema a livello di immagine? C’è già qualche Expo-scettico, per esempio, che vi associa al fenomeno Eataly di Oscar Farinetti. Non sono realtà paragonabili, ma non vi siete interrogati sul fatto che per la prima volta dopo decenni qualcuno possa mettervi in discussione?

Le obiezioni e le critiche aiutano sempre a ragionare, a patto che siano fatte con onestà. Non ha senso accostare queste due esperienze per muovere la stessa critica, sono due soggetti che si rispettano ma sono diversi. Eataly ricopre un ruolo anche importante che possiamo chiamare di educazione alla qualità alimentare. Ma è un’azienda, noi siamo un’associazione che oltre a puntare sull’alimentazione di qualità imposta un discorso di natura economica a tutto vantaggio dei piccoli produttori che faticano a stare sul mercato. Non siamo preoccupati per la nostra immagine, noi siamo sempre impegnati per cambiare un sistema alimentare che non funziona, ecco perché stiamo dentro l’Expo.

Avete un padiglione tutto vostro?

Sì, uno spazio grande, sono 3.500 metri quadrati. L’allestimento è tutto con materiale ricollocabile altrove, in questi mesi raccoglieremo idee e proposte su come riutilizzare le strutture dopo l’Expo. Ci saranno mostre interattive dedicate al tema della biodiversità, una sorta di “albero del cibo” collettivo, un luogo che giorno dopo giorno si arricchirà con piante portate dai visitatori, un orto permanente con attività per adulti e bambini, e anche un teatro per i dibattiti e le conferenze dedicate a tutto ciò che ruota attorno alla cultura alimentare. In più, naturalmente, ci saranno diversi spazi di degustazione, ma abbiamo deciso di puntare soprattutto sui formaggi con una mostra-mercato dedicata a 84 prodotti diversi provenienti da tutti i paesi del mondo. Parte degli incassi servirà anche a finanziare alcuni nostri progetti di solidarietà. Ne abbiamo uno che è partito un anno e mezzo fa, si chiama “10 mila orti per l’Africa”, ne abbiamo già realizzati mille e pensiamo di centrare l’obiettivo nel 2018.

Perché avete puntato proprio sui formaggi per la degustazione?

Perché la filiera lattiero-casearia illustra meglio di altre un sistema che così com’è non regge più: il prezzo del latte è stabilito a livello mondiale, ma con lo stesso elemento lavorano piccoli caseifici con produzioni di nicchia e di alta qualità e grandi aziende con produzioni intensive. C’è chi sopravvive a stento e chi specula su un prodotto di qualità non proprio eccelsa, questo è un settore esemplare per affermare il principio che è fondamentale sostenere sempre le piccole produzioni.

L’Expo comincia proprio il giorno della festa del lavoro.

Noi cominceremo il semestre con due conferenze sul lavoro di qualità, saranno dibattiti a più voci per far emergere tutte le problematiche relative al lavoro nero in agricoltura e nella produzione di cibo.

L’atto del mangiare ormai si è elevato al rango di rito. Si mangia ma soprattutto si specula, si medita e si chiacchiera di cibo e attorno al cibo come non era mai accaduto prima. Sembra quasi che gli alimenti abbiano sostituito le idee. Crede che dopo questa orgia ci dovremo preparare a una sorta di crisi da rigetto? Cosa rimarrà dopo l’abbuffata?

Sì, è vero. La mia generazione è cresciuta con l’idea che il cibo serviva principalmente per nutrirsi, l’aspetto qualitativo degli alimenti era poco considerato. Le cose sono cambiate. Oggi, purtroppo, constato con una certa tristezza che il cibo, e i discorsi sul cibo, sono diventati il simbolo di una società che sta perdendo di vista i diritti delle persone che non possono permettersi il nostro tenore di vita. Nessuno si indigna per il fatto che mentre ad alcuni viene garantito il superfluo ad altri viene negato anche il diritto stesso alla sopravvivenza. L’Expo dovrebbe puntare i riflettori proprio su questa sofferenza, ci sono persone che non possono mangiare e altre che consumano in maniera assolutamente scriteriata. Il pianeta consuma una fetta delle proprie risorse per sfamare solo una parte della popolazione, è un sistema che non può reggere all’infinito, anche se il consumatore tipo continua a fare scelte assolutamente inconsapevoli. Spero che tutti questi discorsi sul cibo, nel tempo, riescano almeno a diffondere la consapevolezza che è necessario riequilibrare e distribuire le risorse per ridare valore al lavoro di chi vuole produrre cibo di qualità in tutto il mondo, che siano giovani contadini o giovani pescatori. È un fatto di giustizia sociale. Questi discorsi noi li facciamo da trent’anni. Tra sei mesi ci auguriamo di essere un po’ meno soli a farli.