Lo scrittore francese, poco noto in Italia, Robert Sabatier, amava gli aforismi. Uno calza alla perfezione con gli ultimi avvenimenti: «C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare».

Possiamo analizzare il voto di domenica sotto diversi punti di vista, e probabilmente capiremmo che la ragione, o il torto, non stanno tutti da una parte. In particolare quando si tratta di argomenti sui quali cade il macigno della strumentalizzazione politica, mettendo in ombra il cuore del problema.

Tuttavia su un aspetto dovremmo concordare in tanti: l’invito a non votare, a non partecipare ad un momento importante, tra i più significativi della vita democratica, rappresenta un vulnus per la stessa democrazia E chi sostiene che altrove la bassa partecipazione elettorale è una cosa normale, forse non si rende conto che in Italia questo comportamento determina un distacco crescente dei cittadini non solo nei confronti delle istituzioni, ma dello stesso vivere civile.

[do action=”citazione”]Per noi è stata una bella battaglia, tutta da rivendicare.[/do]

Una battaglia politica combattuta nel paese ad armi impari, senza poter informare sui temi grandi che sono in campo quando si parla di scelte strategiche per un modello di sviluppo. Questioni importanti affrontate dal presidente del consiglio con l’invito alla cittadinanza di disertare le urne. Salvo apparire in tv, subito dopo i risultati, per dirci che l’appello astensionista gli era costato molto, ma che l’aveva fatto solo per salvare tanti posti di lavoro.

Il giovane cinico della politica italiana deve correre ai ripari («chi vota non perde mai») perché il boomerang astensionista domani potrebbe colpire proprio lui.

Nessuno esce vincitore da questa consultazione. Vediamo perché.

Chi ha promosso il referendum sperava davvero di poter dare una scadenza alle trivellazioni (che adesso avranno vita più facile). Così non è stato. E il quorum è rimasto molto lontano.

Chi pensava di usarlo per una spallata al governo – dalla Lega ai 5Stelle – ha perso la partita. Anche perché non l’ha giocata fino in fondo, come avviene per le elezioni politiche e amministrative, quando è in ballo il potere vero.

Gli oppositori di Renzi hanno utilizzato – soprattutto i 5Stelle – soltanto la mano sinistra. Più che essere attori protagonisti si sono comportati da “spalle”, per saggiare il terreno in vista delle prossime battaglie frontali (sui Comuni e sul referendum costituzionale).

Chi predicava l’astensione sa di aver fatto ricorso a un’arma a doppio taglio. Domani la chiamata alle urne sarà complicata, in particolare nei confronti delle persone indecise: volteranno le spalle a chi pensa di usarle solo per il proprio tornaconto.

Infine, chi crede di aver vinto domenica – in primo luogo il presidente del consiglio – raccoglie un risultato miserrimo, perché la frantumazione della sinistra è evidente, perché il Pd è un partito sfasciato, perché gli oltre 13 milioni di votanti per il Sì non faranno sconti a Renzi (che vinse le europee con 11 milioni di voti).

Il premier ha accusato Michele Emiliano, il governatore della Puglia, di aver condotto una battaglia politica a fini personali, come se Emiliano non fosse un rappresentante eletto dal popolo che, come il voto dimostra, lo aveva delegato a condurla (la Puglia, insieme alla Basilicata, ha avuto la più alta partecipazione, in queste terre siamo al 40 e oltre il 50 per cento). Ma a Potenza, a Matera, a Bari, Renzi preferisce Ravenna, che cita come buon esempio di rifiuto del voto. Dimenticando che già alle ultime elezioni regionali, in Emilia Romagna aveva votato solo il 37 per cento. Già allora, a onor del vero, disse che l’astensionismo non era un problema perché l’importante era portare a casa il risultato. In questo bisogna riconoscergli un pensiero coerente.

[do action=”citazione”]Domenica nelle urne ha vinto il grande partito dell’astensione, è questa l’unica vittoria (di Pirro) che può intestarsi il gruppo di palazzo Chigi.[/do]

I 16 milioni di italiani che hanno scelto di andare al seggio (l’85% per il si, il 14% per il no) hanno seguito una strada diversa da quella indicata da chi ci governa. Tra questi Romano Prodi, come anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Anche se, per recarsi al seggio, il capo dello stato ha atteso la tarda serata, una scelta curiosa da parte di chi, per tenersi fuori dalla mischia, finisce per distinguersi, in negativo, dal voto mattiniero dei due presidenti del parlamento.

E hanno vinto anche i padroni dei pozzi petroliferi, pur ballando sulla graticola per la vicenda della Total e lo scandalo che sta inchiodando persone importanti. Potranno sfruttare le risorse del territorio a loro piacimento – vita natural durante – e senza creare nuova occupazione. Poi, un giorno, sarà lo Stato italiano a doversi accollare i costi per smantellare gli impianti. Tra l’altro chi sostiene che sono stati salvati posti di lavoro sa – o finge di non sapere – che l’esaurimento delle scorte ridurrà sempre di più il numero di impiegati e operai addetti.

La nuova occupazione si crea progettando cambiamenti duraturi nel tempo. Invece, questo tema, molto forte, è passato in secondo piano. Ma resta un problema centrale, italiano e internazionale. Almeno così pensano quei tredici milioni di italiani che hanno votato Sì.

Certamente non sono tutti ambientalisti, altrimenti avremmo già un partito “verde” rilevante. Tuttavia il “messaggio” lasciato nelle urne è ricco di significati, che solo gli azzeccagarbugli della politica non sono in grado di capire, perché si accontentano di raccogliere le briciole del giorno dopo.

Buon per loro. Non per noi.