«Barche controcorrente, sospinte di continuo nel passato». La scorata immagine della condizione umana che fa da chiusa al Grande Gatsby riecheggia in un ipnotico romanzo di recente pubblicazione e rara qualità letteraria. «Il nuotatore guarda il suo futuro», scrive nell’incipit lo spagnolo Joaquín Pérez Azaústre. Il mondo dei Nuotatori (Codice edizioni, ottima traduzione di Paola Tomasinelli, pp. 253, euro 16,90) è ovviamente un altro, come è altro il tono, distante anni luce dalla rancorosa nostalgia che Fitzgerald attribuì alla sua voce narrante. Da una parte il passato, dall’altra un futuro contemplato non dalle acque sterminate e potenti nelle quali può smarrirsi una imbarcazione, ma in quelle raccolte, innocue e depurate di una piscina. E infatti, proseguendo nella lettura, si scopre un autore del tutto diverso da Fitzgerald, uno scrittore che misura la prosa con la cadenza ossessiva di un metronomo, come se la sua principale preoccupazione non fosse quella di raccontare una storia, bensì un’impresa impossibile, quella di accerchiare il tempo.

Nelle prime due pagine questo nostro nuotatore, ancora privo di un nome, è descritto nei momenti che precedono l’ingresso in acqua, il distendersi delle prime bracciate. È raffigurato nell’uscire di casa, una casa piccola, anzi un cubicolo, per stare alla definizione che ne viene data e nella quale sembra affiorare l’abbaino somigliante a un armadio che Raskol’nikov lascia all’inizio di Delitto e castigo, complice anche la citazione da Dostoevskij posta in esergo al romanzo. Percorso il tragitto che lo separa dalla piscina, il nuotatore si dirige verso gli spogliatoi senza che un solo suo gesto venga considerato abbastanza marginale da non essere richiamato alla nostra attenzione.

Del resto, chi ha praticato questo sport sa che il nuotare in piscina è anticipato da una precisa routine. Ogni cosa ha un proprio posto, e anche un senso preciso malgrado l’irrilevanza apparente. Nello zaino, preparato per tempo, le ciabatte vengono sempre collocate dietro l’asciugamano ben ripiegato. La presenza di occhialini, cuffia e costume è sempre verificata con cura, se non con una certa apprensione. Tutto viene svolto con il religioso silenzioso e la devota concentrazione di un rito preparatorio, e ciò perché, entrando in acqua, il nuotatore accede a un’altra dimensione, fatta di isolamento e confronto col proprio corpo.

Il nuotatore è lasciato a se stesso non tanto perché si nuota in solitudine, ma perché, una volta in acqua, il mondo in cui normalmente si vive cessa di esistere. Lo soppianta un ambiente astratto, un invaso squadrato nel quale fare avanti e indietro a forza di bracciate e colpi di gambe. Il nuotatore guarda il suo futuro, ma al termine di ogni vasca è obbligato a rifare la strada da cui è venuto, sospinto perennemente nel passato, proprio come nell’immagine che chiude Il grande Gatsby. Le analogie non terminano qui. Nel suo scritto testamentario, Il crollo, Fitzgerald paragona lo scrivere bene al nuotare sott’acqua, trattenendo il fiato.

Azaústre non si concede associazioni altrettanto esplicite, ma è evidente che l’invaso della piscina, in quanto luogo di isolamento e di incontro con se stessi, fa il paio con il rettangolo bianco della pagina. Entrambi gli spazi funzionano alla maniera di un amplificatore interiore, esaltano speranze e paure, ci consentano di scoprire fin dove possiamo arrivare, misurano la nostra forza ma soprattutto le nostre debolezze, solitamente più numerose e profonde delle nostra forza. «Non si può ingannare l’acqua» dice Azaústre, un principio analogo dovrebbe valere nello scrivere: non si può ingannare se stessi. O meglio: non è possibile farlo senza pagare un prezzo. Quando scopriamo che il nuotatore ha anche un nome, Jonás, ci rendiamo conto di quanto sia sottile e confuso il margine che divide il futuro dal passato.

Da anni Jonás nuota nella stessa piscina, ci va negli orari in cui non vi nuotano gli allievi della scuola, durante le pause del pranzo o la sera. Nuota per cinquanta minuti, il tempo di fare cinquanta vasche da cinquanta metri. Jonás ha anche un compagno di nuoto, un certo Sergio. Agli inizi, quando entrambi erano molto giovani, Jonás e Sergio sembravano simili. Nel parlare del futuro, entrambi mostravano la stessa positiva attitudine, lo stesso sguardo sulle cose, malgrado avessero scelto strade molto diverse. Erano entrambi convinti che nulla potesse fermare la determinazione di due giovani uomini. Per loro e le loro ambizioni, ci sarebbe stato sempre spazio, non importa quanto il mondo potesse cambiare. Erano insomma «padroni di ciò che non possedevano, la sostanza gassosa dei loro sogni», una sensazione che il giovane Gatsby conosceva bene. Col tempo la situazione è tuttavia mutata. Sergio è diventato avvocato di successo, uomo sposato, padre felice. Jonás, per contro, sembra in mezzo al guado. La relazione con la compagna è finita costringendolo a trasferirsi all’altro capo della città, lontano dal quartiere in cui lavora Sergio, un conglomerato di grattacieli immensi e uffici dove si trova anche la piscina che Jonás si ostina a frequentare malgrado gli comporti un’ora di viaggio in metropolitana.

Nel giro di pochi anni Sergio e Jonás hanno così smesso di somigliarsi, ritrovandosi alle opposte estremità della scala di valori con cui siamo ormai soliti misurare la realizzazione personale, successo e fallimento, famiglia e solitudine, marginalità e l’essere al centro delle cose. A ben guardare, però, i diversi destini erano già scritti fin dall’inizio nei rispettivi modi di nuotare. Sergio pare fatto d’acqua, scivola sulla superficie, mentre Jonás nuota a spintoni, sa soltanto forzare e «quando nuota, a volte, una voce interiore gli grida dài dài». Inoltre, ora che è un uomo realizzato, Sergio ha la sensazione di essere sempre stato padre, lui e sua moglie non ricordano più «come fosse stare da soli». Il che suona quasi come un monito sull’ingannevole luccichio dei sogni di gioventù: il fulgore del successo, dei sogni realizzati, è spesso opaco, interno alla materia di cui è fatta la vita.

È in questo scenario, in questa imprecisata città del nostro tempo, che a poco a poco, nelle pieghe dei giorni, si fa strada un fenomeno inspiegabile. Le persone iniziano a sparire. Seppure senza grandi clamori, la città si svuota, come affetta da un’epidemia quieta. Il romanzo imbocca così la via di un giallo metafisico. Le brume di un estraniamento stordente, in bilico tra Kafka e David Lynch, si addensano sul dipanarsi di un mistero che, com’è d’obbligo in questi casi, non troverà scioglimento. Superfluo rimarcare che di sparizioni allegoriche si tratta. Non per nulla il motivo fa una prima, e all’apparenza insignificante, comparsa in una delle pagine iniziali, quando, descrivendo il quartiere di grattacieli immensi dal quale Jonás è escluso, il narratore si sofferma sulle «strane creature, coperte di cartoni e di lentezza» che, a metà pomeriggio, intorno all’orario di chiusura degli uffici, compaiono silenziose, «come se affiorassero dall’interno di un formicaio».

Impossibile non riconoscere un legame forte tra le enigmatiche sparizioni e questi reietti, sommersi di una società cinica e precaria in cui, come in piscina, si nuota soli, ognuno nella propria corsia, guardando un futuro che spesso non va oltre la parete piastrellata della vasca. Le persone scompaiono alla maniera dei nuotatori in piscina: ci appaiono come sagome indistinte, corpi che a malapena sfioriamo. Ma la nostra condizione di salvati non appare certo più solida, appesa com’è a un numero di cellulare, a un indirizzo e-mail, a una rete sociale sempre più sfilacciata.