Tutta la ricerca di Matthew Barney sfugge alla messa a fuoco, la sua è un’arte di frontiera, che scorre lungo i bordi in cui cortocircuitano diverse arti, e questo mette a repentaglio i nostri assestamenti teorici, le categorie interpretative che già conosciamo. È un trans-genre la cui variabilità è determinata anche dai luoghi, dai contesti di ricezione, in cui i lavori vengono proposti.
Per quanto riguarda, ad esempio, l’anteprima italiana di River of Fundament lo spazio scelto è stato quello del Teatro Comunale di Bologna.

 

 

Presentato venerdì 29 gennaio, in occasione dei quarant’anni di Arte Fiera, questo nuovo progetto, realizzato in collaborazione con il compositore Jonathan Bepler, già suo sodale per l’intero Cremaster Cycle, mette in evidenza come Barney appartenga a quella grande tradizione occidentale di autori che, dominati dall’estro dell’ambizione, si sono confrontati con la creazione di un’opera mondo, con cui River of Fundament condivide la vastità d’impianto, la sovrasignificazione allegorica, l’enciclopedismo, l’evasione dai confini, dalle categorie, ma soprattutto la pretesa di voler essere epocale e in continuo divenire.
River of Fundament è un film-opera (da qui la volontà di proporlo unicamente in quegli spazi riservati alla lirica) suddiviso in tre atti (1h 55′; 1h 40′; 1h 36′), ispirato al romanzo di Norman Mailer, Ancient Evenings, ambientato nell’antico Egitto e incentrato sul triplice processo di reincarnazione intrapreso da Menenhet I per rinascere dalla propria moglie e raggiungere così l’immortalità. Barney sposta la vicenda negli Stati Uniti e fa di Mailer il protagonista della sua stessa creazione (cornice dell’opera è la veglia funebre nella casa dello scrittore intervallata dalla documentazione di tre perfomance), di quel gorgo di morti e trasformazioni che da sempre è al centro dell’investigazione dell’autore di Cremaster, tesa a una nuova definizione del sé attraverso la volontà di superare il proprio Io.

 

VISDXaperturamatthew-barney-river-of-fundament-moca

 

Barney riprende e adatta miti, simbologie (processi alchemici, massonici, mormonici) e racconti raccolti nella grande enciclopedia dell’inusitato. Il mondo creativo in cui ci conduce è fatto di labirinti visionari che, anche se accompagnati da annotazioni, foto, video (si veda ad esempio il sito www.riveroffundament.net), risultano spesso di difficile lettura.
Diceva Renato Barilli, nel corso del convegno padovano «Training for a Metamorphosis»(tenutosi nel novembre del 2010): «Veramente Barney supera ogni limite, ogni spazio; è eclettico, raccoglie tutto . La sua è un’arte assolutamente inclusiva. nella sua opera ci sono tutti i generi cinematografici, a cominciare dai generi hollywoodiani che vengono ripresi, forse, con una punta di ironia e con la sfida del kitsch».

 

 

Certamente può infastidire la cripticità e la sovrabbondanza di citazioni, spesso autoreferenziali, tutta quella proliferazione di segni che il regista usa a piene mani per stupire e frastornare lo spettatore, stordirlo e renderlo quasi impotente in termini interpretativi. C’è però qualcosa di più immediato rispetto alle piste simboliche, mitologiche e intertestuali:l’immagine creata da Barney è così potente da attrarre al di là della significazione e della durata: icone fortissime che, anche se non capisci cosa siano, cosa facciano, hanno comunque il potere di sedurre.

 

 

I corpi in River of Fundament trasmettono la flagranza, lo sconvolgimento e l’inquietudine degli atti performativi a cui sono sottoposti. Quella che restituiscono è un’immagine estrema che riesce a mettere in crisi, in senso quasi fisico, la nostra stessa sicurezza di spettatori.
Si assiste a un rituale orgiastico di performance così spettacolari che presuppongono un dispendio di mezzi che solo il cinema può permettere e che Barney adopera all’ennesima potenza: anche stilisticamente, dunque, si è investiti da un notevole impegno produttivo che si esprime nel nitore tecnico, nell’ariosità delle forme e nell’ampia prospettiva delle inquadrature applicate ai contenuti.

 

 

River of Fundament (come già il ciclo di Cremaster e il successivo Drawing Restraint 9) è un progetto titanico: Barilli, per provare a raccontare l’arte di Barney, ha parlato di wagnerismo, di una grande sinfonia basata anche sui ritorni, sulla tecnica del leitmotiv ripetut. E lo stesso regista ha sempre declinato il proprio lavoro in termini di opera lirica, genere nel quale, effettivamente, convergono e vengono «combinate» esperienze sensibili di diversa origine e natura.

maxresdefault

 

Si può perciò dire che Barney lavori con la musica non solo in modo plastico, ma anche in un modo strutturale e in River of Fundament tutto questo è inequivocabile: senza la sua parte musicale le immagini non avrebbero il giusto spessore. Musica e rumore accompagnano nel loro crescendo il ritmo del montaggio: in film «entra in fase» della colonna e sonora e viceversa. Del resto come dichiarato dallo stesso Bepler: «Credo che abbiamo progressivamente spostato i confini, sconfinando tra musica e immagine, nel corso del tempo. I due aspetti sono praticamente inseparabili ora».