Cessato l’allarme, la “questione periferie” torna nel cono d’ombra dei media come fosse stata un fenomeno isolato e passeggero, un capriccio di una parte della città delusa e abbandonata. Ora c’è il “progetto di rammendo” affidato a Renzo Piano e al suo gruppo di lavoro G124, e così la politica passa volentieri la mano (meglio sarebbe dire la palla) all’architettura e all’urbanistica, rinunciando al suo ruolo guida.

È invece utile non sottovalutare quanto è successo nelle nostre periferie (e quello che potrebbe ancora accadere) ricordando le parole di una lunga intervista a Foucault («spazio, sapere e potere») a chi gli chiedeva quale fosse il ruolo dell’urbanistica e dell’architettura nella società moderna: «All’inizio del XVII secolo si smette di concepire la città come un luogo privilegiato, come un’eccezione all’interno di un territorio costituito da campi, foreste e strade. D’ora in poi le città, con i problemi che sollevano e le configurazioni particolari che assumono, servono da modelli per una razionalità di governo che verrà applicata all’insieme del territorio».

E del resto lo stesso Renzo Piano conferma come «il grande progetto del nostro Paese sia quello delle periferie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. Sono ricche di umanità, qui si trova l’energia e qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare». Tuttavia incalzato dai suoi allievi che gli chiedono se certi progetti architettonici possono rappresentare delle forze di liberazione o, al contrario, delle forze di resistenza, Foucault risponde: «La libertà è una pratica. Dunque può sempre esistere in effetti un certo numero di progetti che tendono a modificare determinate costrizioni, ad ammorbidirle, o anche ad infrangerle, ma nessuno di tali progetti, semplicemente per propria natura, può garantire che la gente sarà automaticamente più libera». Il contributo di Renzo Piano al problema delle periferie, sia pure mosso da buoni propositi, ha il punto debole (non imputabile a lui) nell’affrontare la questione solo nella direzione dell’architettura e dell’urbanistica: «Si deve intensificare la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte. Di certo non bisogna costruire nuove periferie oltre a quelle esistenti: devono diventare città ma senza espandersi a macchia d’olio, vanno ricucite e fertilizzate con strutture pubbliche.È necessario mettere un limite a questo tipo di crescita, non possiamo più permetterci altre periferie remote, anche per ragioni economiche». Su questa questione, nel procedere dell’intervista, Foucault si esprime con molta determinazione: «Penso che l’architettura (e l’urbanistica, ndr) possa produrre, e produca, degli effetti positivi quando le intenzioni liberatorie dell’architetto coincidono con la pratica reale delle persone nell’esercizio delle loro libertà».

Ora bisogna riconoscere che Renzo Piano è uno dei più bravi architetti italiani per cultura, serietà e professionalità, ma ha ragione Emanuele Picardo ad affermare su questo stesso giornale (il manifesto del 30/12/2014) che: «Affrontare la periferia solo con lo sguardo dell’architetto è un peccato originale che ne impedisce una lettura complessa e articolata». E qui è necessario restituire di nuovo la parola a Foucault: «L’esercizio della libertà non è del tutto insensibile alla distribuzione degli spazi, ma esso può funzionare soltanto dove si dà una certa convergenza; se vi è divergenza o distorsione l’effetto prodotto è immediatamente contrario a quello ricercato». Questo è quello che è accaduto al progetto rutelliano delle «cento piazze». Alcune di esse, come a San Basilio hanno avuto un certo successo; altre, come al Quarticciolo, stanno per essere smantellate perché gli abitanti le sentono estranee e vogliono ritornare alla piazza che c’era negli anni ’50.

Dunque un progetto architettonico-urbanistico o viene concepito e realizzato direttamente (e autoritariamente) dal Principe, oppure, in epoca moderna, non può che scaturire (sia pure con l’autonomia necessaria) all’interno di una cornice politica che detta una propria visione della società, una politica intesa come mediazione di interessi in gioco, interpretazione dei bisogni, espliciti o meno, degli abitanti che quei luoghi li abitano e li attraversano quotidianamente. Se la politica delega in toto la soluzione dei problemi sociali all’architettura e all’urbanistica, il progetto che ne consegue risulta monco, affidato al libero arbitrio (ed estro) del suo Progettista che viene gravato di un compito improprio e improbo, ovvero quello di risolvere questioni sociali che non gli competono direttamente, il che facilmente degenera in opere autocelebrative che a Roma, per fare un esempio, si chiamano la “Nuvola” o lo “Stadio del nuoto” (e rimane solo da sperare che tra di esse non compaia infine anche il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle).

È vero che il “progetto di rammendo” di Piano ha una sensibilità diversa e si rivolge ai quartieri periferici senza cercare effetti sorprendenti né sensazionalismi e utilizzando poche risorse (poco più dello stipendio di senatore a vita messo a disposizione da Piano), ma è la cornice politica che manca, ciò che a suo tempo dava senso alle geniali iniziative di Nicolini nello scenario politico impostato da Petroselli. Perché a fronte di tante demagogie populiste bisogna pur affermare e difendere l’autonomia delle scelte progettuali – architettoniche o urbanistiche – che mai debbono essere piegate al volere dei poteri dominanti quale che siano, come avveniva già nel Rinascimento.

Una delle principali condizioni che distingue le attuali periferie da quelle degli anni ’50 e ’60 è la crescita progressiva delle disuguaglianze sociali. Anche nelle prime periferie urbane, la causa del degrado nasceva dalle condizioni di povertà ma, all’epoca, c’era l’attesa e la quasi certezza che lo sviluppo e il benessere prima o poi, avrebbe raggiunto tutti gli strati sociali. Queste condizioni di povertà sono diventate ora strutturali, croniche, fisiche, esistenziali, trasformate in condizioni di miseria, senza che si abbia più la percezione che esse possano migliorare, in un quadro sociale imbarbarito dove prevale il morbo individualista del «speriamo che io me la cavo».

E al tempo stesso la questione sociale al centro di tante e famose opere letterarie dell’800 e della prima metà del ’900, da Zola a Steinbeck, da Balzac ad Hugo, come affermava qualche giorno fa Alberto Asor Rosa su La Repubblica, «non vive più nelle coscienze delle persone. La percezione e la condanna delle disuguaglianze sociali è stata respinta ai margini, non interessa». La stessa sorte capita agli urbanisti, ai sociologi, agli antropologi per i quali la questione delle disuguaglianze in quanto suddivisione della società tra chi possiede molto e chi non possiede niente, si consuma e si dissolve nella ricerca di improponibili soluzioni specialistiche.

Perfino i giovani ricercatori la aggirano: anche loro indagano casi particolari, segmentazioni sociali, quasi che questi fossero isolabili dal contesto sociale più generale. Ci si occupa di rifugiati, profughi, Rom, barboni, occupanti di case, storie isolate di vicende personali. È come se questa società si fosse fatta distratta, avesse rimosso il tema del conflitto sociale e non tenesse più in conto di quello che Stiglitz chiama il prezzo della disuguaglianza, il vero motore delle rivolte. Se il mondo diventa sempre più duale e la periferia rappresenta quel 99% di chi non possiede niente che assedia le comunità blindate di quel l’1% che possiede tutto, la soluzione può essere solo quella di cambiare direzione, e politica.