È improbabile che, quando nel 2011 pubblicò il racconto da cui sarebbe nata la fortunatissima «Trilogia del Silo», Hugh Howey fosse cosciente di star scrivendo una pagina importantissima nella storia dell’industria culturale di massa. Aveva 36 anni, la classica marea americana di mestieri alle spalle e una serie di romanzi di fantascienza uscita con case editrici minori. Il nuovo racconto, Wool, decise invece di affidarlo direttamente al sistema Amazon Com’s Kindle Direct Publishing, senza passare per la mediazione di una grande o piccola casa editrice. In Italia la sola idea sarebbe stata da camicia di forza, ma negli Usa, dove le vendite di e-book si avviavano a superare quelle dei libri in carta (sorpasso poi puntualmente realizzatosi), ci poteva stare.
Il racconto infatti vendette benissimo, e così quelli successivi. A partire dall’idea iniziale, Howey ha costruito infatti un intero universo, fino a realizzare una saga post-apocalittica poi raccolta, nel 2012, nei tre volumi Wool, Shift e Dust. Per la pubblicazione in carta, Howey si è affidato a Simon and Schuster, ma i diritti delle vendite online, nonostante offerte da favola, se li è tenuti stretti. In compenso ha ceduto quelli per la versione cinematografica alla 20th Century Fox. In Italia a pubblicare la trilogia sono i Fratelli Fabbri: dopo i primi due volumi, è adesso la volta di Dust (pp. 462, euro 14,90).
Grazie al successo, tanto imprevisto quanto clamoroso, la «Trilogia del Silo» segna dunque ufficialmente la nascita della letteratura indie, indipendente,ma la rivoluzione che ha avviato rischia di mettere in primo piano solo l’evento editoriale oscurando la qualità della serie, che è invece altissima. L’etichetta «post-apocalittica», la cui popolarità nel cinema e nella letteratura di genere americana da tre decenni almeno è paragonabile solo a quella dell’onnipresente serial killer, è adeguata: si parla infatti di una comunità di sopravvissuti, costretti da un paio di secoli a vivere in un’enorme palazzo sotterraneo (un Silo appunto), roba da 150 piani in profondità, con uno schermo come unica finestra sulla desolazione del mondo distrutto e inabitabile della superficie. Chi esprime il desiderio di uscire all’aperto, fosse pure solo con un vago e peregrino accenno, viene seduta stante condannato alla «Pulizia». Deve uscire davvero dal Silo, col compito di pulire le lenti che permettono di sbirciare sul mondo di ieri, per finire subito dopo disintegrato dagli agenti venefici che hanno reso il pianeta inabitabile.
Però i tre romanzi indie di Howey non sono solo questo. Sono anche, a tutti gli effetti, un modello di SF «distopica», simile da questo punto di vista all’altrettanto fortunata trilogia di Suzanne Collins Hunger Games, e sarà solo una coincidenza se i due eventi editoriali che hanno segnato il secondo decennio del secolo, quelli il cui trionfo è stato decretato direttamente dai lettori senza alcun lancio né intervento delle case editrici, descrivono incubi futuri edificati con materiale rubato al presente e veicolano, nonostante le immense differenze, il medesimo messaggio, e cioè l’inevitabilità della rivolta?
Nei romanzi del Silo Howey descrive nei particolari un intero assetto sociale agorafobico, complessivamente fondato sulla penuria e sull’impossibilità per la grandissima maggioranza della popolazione di accedere alle informazioni reali, con ruoli e mansioni tanto rigidi quanto gerarchizzati; e tuttavia, formalmente, democratico. Un sistema in cui le divisioni di classe non passano per il reddito ma per le mansioni, con gli addetti ai lavori meccanici ghettizzati nei piani più bassi e al di sotto di loro i «portatori», incaricati di correre su è giù per le infinite scalinate in assenza di ascensori. Il potere reale e la conoscenza della verità non sono depositati nelle mani dei sindaci e degli sceriffi eletti dal popolo, ma in quelle di una ristrettissima casta di tecnocrati. Solo andando avanti nella lettura si intuirà, senza che l’autore debba mai esplicitarlo, che quell’ordine sociale corrisponde, portandolo alle estreme conseguenze, a quello che c’era nel mondo di fuori un attimo prima della catastrofe, della quale è peraltro direttamente responsabile.
La trilogia di Howey è infatti una storia tanto «pre» quanto «post» apocalittica. Il primo romanzo descrive l’universo chiuso del silo e segue le avventure di Juliette, una meccanica che si troverà a essere la prima, nel corso dei secoli, a uscire dal silo senza finire distrutta in pochi minuti dai veleni nell’aria. Il secondo arretra di qualche secolo. Racconta l’apocalisse e ne svela le ragioni. Segue la vicenda di uno dei tecnici che l’hanno provocata, Donald Keene, architetto e deputato, l’uomo che materialmente progetta il silo e che avrebbe tutte le possibilità di comprendere a cosa sta collaborando, se solo volesse aprire gli occhi. Non vuole. Guarda e non vede. Non capisce perché non vuole capire, e si rivela così una delle mille incarnazioni possibili di quella attitudine diffusa che andrebbe chiamata «banalità del male», se lo sfrenato abuso della celebre quanto malintesa definizione di Hannah Arendt non l’avesse ormai completamente stravolta, cancellando proprio quel che per la filosofa tedesca ne era l’anima e la chiave: la rinuncia all’esercizio del pensiero. Nel terzo romanzo le due correnti si ricongiungono e si intrecciano, non solo portando la vicenda al suo scioglimento ed epilogo ma chiarendo per intero quale progetto lucidamente folle presiedeva alla distruzione del mondo, all’assassinio di miliardi di esseri umani e alla costruzione del silo.
L’aspetto pre-apocalittico è in realtà il più interessante, soprattutto il più originale. In una casistica foltissima di film e romanzi apocalittici, la fine del mondo è nella stragrande maggioranza dei casi provocata dagli uomini. Mai però con fredda intenzionalità: piuttosto un virus che sfugge al controllo, qualche esperimento ardito andato male, un amabile scambio di ordigni nucleari un tantinello troppo fitto… Stavolta no. In questo caso lo sterminio di quasi tutto il genere umano è una scelta consapevole, decisa, pianificata e infine operata da un gruppo molto piccolo di uomini molto potenti. Non sono killer seriali o folli innamorati della morte. Sono colti galantuomini, scienziati e uomini di potere, convinti che lo sterminio sia il male minore, il solo modo per evitare un olocausto che non lascerebbe scampo a nessuno, neppure ai pochissimi che loro scelgono invece di salvare. E anche se qualcuno ce la facesse, a non farcela sarebbe la civiltà, quella che a loro insindacabile giudizio è la sola civiltà possibile. Dunque optano, ovviamente senza consultare nessuno, per la distruzione preventiva, un’ecatombe che quasi annienta il genere umana, però pilotata, così da consentirgli di pianificare e preparare una sorta di ri-colonizzazione del pianeta posticipata di qualche secolo e affidata a un genere umano «rieducato» dalla lunghissima permanenza nel silo. Una versione sinistra delle Fondazioni di Isaac Asimov, che rispecchia il fondato pessimismo dei tempi esattamente come la trilogia di Asimov rifletteva la fiducia nel futuro della metà del secolo scorso.
Leggi e pensi che si tratta appunto di fantascienza. Poi ti vengono in mente quei tecnocrati, anche loro molto pochi e molto potenti, che hanno costruito l’euro: l’orgoglioso racconto di come si chiudevano in una stanza spremendosi le meningi per rendere impossibile uscire dalla gabbia che stavano scientemente edificando; le ammissioni e le mezze parole che rivelano quanto fossero consapevoli dei prezzi che avrebbe comportato per i popoli la realizzazione del loro sogno; la superbia che li spingeva, e li spinge, ad arrogarsi il diritto di decidere per tutti. E ti rendi conto che, ancora una volta, la letteratura di genere ha colto il segno dei tempi, la mappa segreta delle sue zone oscure, con l’immediatezza e la precisione spesso negate a più vaste e addottorate narrazioni.