Non succede spesso che la moda si trovi in mezzo a un guado così impreciso. Il periodo storico è certamente poco decifrabile, ci sono delle tensioni uguali e contrarie che sollecitano parti opposte e la moda è lì che non riesce a scegliere una riva; rivoluzione o restaurazione? L’imbarazzo, se così si può dire, si è reso visibile nei due primi appuntamento con le passerelle, quelle della moda maschile a Milano, in cui gli stilisti hanno dovuto fare non solo i conti ma un bagno nella realtà che stiamo vivendo, e quelle per la Haute Couture a Parigi.

La situazione è complessa, certo. Ma non è nuova. Se solo ci si focalizza sui segnali, ci si accorge che siamo ricaduti nella situazione già vissuta negli anni Ottanta quando, con Donald Reagan alla Casa Bianca di Washington e Margareth Thatcher in Downing Street a Londra, la moda ha subito uno degli smacchi più totali al suo senso del gusto. Allora, l’edonismo l’ha caricata di lustrini e scosciamenti, come oggi il populismo la potrebbe costringere alla ricerca del consenso diffuso, con l’elaborazione di un gusto “di pancia” che ne segnerebbe un infausto destino per i prossimi decenni.

Tanto più che la deregulation Reagan-Thatcher, che tanti lutti ha provocato nella società, oggi sembra riviere nell’asse Donald Trump-Theresa May, con le follie politiche dell’americano che urla “America First” e la Hard Brexit dell’inglese. Unite, e se realizzate, per la moda le due minacce provocherebbero una crisi commerciale di dimensioni catastrofiche. Ma a quel punto, però, l’Europa potrebbe anche ridere a osservare come si vestirebbero inglesi e americani che, proprio grazie a Regan e alla Tatcher, hanno dismesso l’industria manifatturiera del tessile-abbigliamento.

Nella moda uomo, che è sempre quella in cui i segnali si rendono evidenti per primi, questa situazione si nota soprattutto nel ritorno di una declinazione di abiti senza caratteristiche, il famoso abito di rappresentanza senza rappresentazione, che si mescola a una violenta risorgenza di mancanza di contenuto trasformato in golden appearence, in una convivenza di uomini-manichini e uomini-cocorite. Il pericolo, insomma, è rappresentato dalla rincorsa a un nuovo reaganismo, un fantasma di cui viene auspicato il ritorno. Se così non fosse, non si capirebbe perché dovrebbe esistere una linea di abiti che si chiama Billionaire (disegnata da Philip Plein in società con Flavio Briatore) che ha sfilato riproponendo l’immagine di un uomo alla Dallas e Miami Vice, una volgarità di gusto che si sperava abbandonata per sempre.

Dall’altra parte del guado c’è una moda che almeno cerca un metodo di protesta. «Perché far credere che è importante solo essere per forza ricchi e famosi e non accettare l’idea che anche le debolezze hanno un valore? Il vero senso va ritrovato lontano da un’autorappresentazione di sé che passa attraverso la forza illusoria del potere»», riflette Miuccia Prada.

A Parigi, la Haute Couture schiera da una parte gli abiti unici pensati solo per un mercato ad altissima capacità di spesa e, quindi, sembra allinearsi di più a un sentimento di restaurazione. Dall’altra parte c’è chi, come Valentino concepita da Pierpaolo Piccioli e Maison Margiela di John Galliano, lavora per significati alternativi. Il primo recupera un valore manuale e umanistico insito nell’atelier, il secondo scarnifica gli abiti fino a scoprirne la vera essenza. Entrambi senza fronzoli, aggiunte, sovrastrutture che servono più a esprimere il potere che deriva dal possesso.

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