Oltre all’interminabile riflessione sulla scrittura (che è anzitiutto qualcosa che si vede), Derrida ha scritto tre libri sul visibile come immagine, dipinto, fotografia, e tutte e tre le volte per circostanze accidentali. Le riflessioni sui pittori (ma anche la critica dell’Origine dell’opera d’arte di Heidegger) raccolte in La verità in pittura (1978); quelle sull’autoritratto e la cecità proposte in Memorie di cieco (1990), che rispondeva a una committenza del Louvre; e, per l’appunto, la raccolta (postuma e non programmata) Pensare al non vedere, uscito in Francia nel 2013 a cura di Ginette Michaud, Joana Masó e Javier Bassas e ora tradotto e introdotto in italiano da Alfonso Cariolato (Jaca Book, pp. 395, euro 30,000).

Nel sottotitolo si precisa che gli scritti sono del periodo 1979-2004 (anno della morte di Derrida), ma in effetti la maggior parte dei contributi risalgono agli ultimi e frenetici anni della sua vita, quando Derrida moltiplicava le tracce, le memorie, le testimonianze di sé, in interviste, trascrizioni di conferenze, testi disparati. Molto disparati, in effetti, e Derrida si esercita ammirevolmente, anche se non è sempre facile, nell’evitare la ripetizione o il cliché, ad esempio in interviste che gli pongono delle domande enormi, o ingenue, o entrambe le cose.

Per difendersi da richieste monumentali, per non cedere a una ingenuità che è anche sua («Qualcuno mi ha riferito che recentemente ha avuto luogo un dibattito implicante la decostruzione nell’esercito o nella marina», leggiamo in una delle interviste), Derrida mette le mani avanti, ritorna sempre sul tema della sua incompetenza, consapevole del fatto che, se si chiede il suo parere sull’universo mondo, i casi sono due: o gli si attribuisce un sapere assoluto, che lui si affretta a smentire, o – più probabilmente – lo si interpella per la sua notorietà e disponibilità. E lui si presta, perché sa che ne va della sua sopravvivenza, cioè di una questione di vita o di morte e, soprattutto (come aveva sostenuto in tanti scritti), di vita post-mortem, di ciò che resterà di lui e del suo pensiero.

Mettere le mani avanti, infatti, non è solo una protezione rispetto al proprio non-sapere, ma è anzitutto una protezione rispetto all’invisibile, a una minaccia che incombe, come il cieco che avanza a tastoni. In Pensare al non vedere, la trascrizione di una conferenza del 1° luglio 2001 che dà il titolo alla raccolta, Derrida parla di un cambiamento di rotta nella sua concezione del visibile, che possiamo datare pressappoco con i temi di Memorie di cieco. Prima di allora, e tipicamente in La verità in pittura, vedere e pensare erano due filosofemi metafisici che entravano in gioco nella decostruzione: l’eidos, che presuppone una visibilità e una trasparenza del mondo, che attesta la presenza delle cose di fronte a noi; e il logos, che indica la prossimità della coscienza con se stessa. La decostruzione consiste nel mostrare che l’eidos abita nel logos, come testimonia la scrittura, ma è un visibile che si manifesta come traccia, cioè come non presenza a se stesso. Non c’è presenza, c’è sempre e solo differimento, rinvio, in una vita che si proietta anticipando il proprio sopravvivere.

Ma fino a quando si differisce? Perché, in effetti, c’è un indifferibile che a un certo punto entra nella vita, prende posto e non se ne va più. Il gioco della differenza, del proiettarsi in avanti, si incrocia con un movimento inverso: c’è qualcosa che si fa avanti, che ci viene incontro, che – come sottolinea Derrida in quello che probabilmente è il concetto fondamentale tanto di questa conferenza quanto della sua ultima riflessione sul vedere – vediamo venire. Adesso il vedere non designa solo una presenza, che si cerca di determinare teoricamente (il theorein è appunto una visione), bensì una imminenza, come per l’appunto quando si vede venire qualcosa, o lo si intuisce attraverso segni e premonizioni, con un atteggiamento che prima di essere teorico è pratico, e concerne un fare (per esempio, schivare un pericolo).

Sebbene Derrida dia più di un volto a questo «veder venire» (la protenzione nella tradizione fenomenologica, il messianismo, la riflessione heideggeriana sull’evento), il suo significato più ovvio è la morte. Già in un breve testo della fine degli anni ottanta, Che cos’è la poesia?, Derrida aveva rappresentato la situazione di questo essere per la morte, attraverso la figura di un animale (cioè del prototipo del vivente, che prenderà una importanza sempre più grande nella sua filosofia): un istrice che di notte attraversa un’autostrada, è accecato dai fari di un’auto, per difendersi si chiude a riccio, e così si perde. Non sappiamo se gli animali non piangano, osserva giustamente Derrida in Pensare al non vedere, ma sicuramente gli umani non sono capaci di chiudersi a riccio, e per loro – è il concetto fondamentale di Memorie di cieco – il pathos dell’ineluttabile è manifestato da quella seconda funzione dell’occhio che spesso filosofi e non filosofi non prendono in considerazione: il pianto.

Piangere è uno dei tanti modi di mettere un velo tra noi e quello che vediamo venire. Un altro è – come propone in modo neo-stoico Hegel – «tenere fermo il mortuum, conservare lo sguardo fisso», come di fatto avvenne a Derrida verso la fine degli anni ottanta, non per una decisione neo-stoica ma per una infezione virale a un occhio che per giorni gli impedì di chiuderlo, e a cui fa riferimento in vari testi, in questa raccolta e altrove.
Tra il piangere come un bambino e il tenere gli occhi aperti come un filosofo o come un malato, resta l’esperienza traumatica del veder venire.
Prendiamo un testo non compreso in questa raccolta Il sogno di Benjamin, il discorso pronunciato a Francoforte nel settembre del 2002, cioè poche settimane dopo il discorso di Orta. «Un giorno del settembre 1970 – leggiamo – vedendo venire la morte, mio padre ammalato mi confidò “sono fottuto”». Dove il padre (e il figlio che si rispecchia in lui) vede venire l’indifferibile. È una scena classica, la stessa che troviamo nel discorso di Harry, lo scrittore fallito di Hemingway in Le nevi del Kilimangiaro: «Non credere a quella storia del teschio e della falce – dice alla moglie – Possono essere, altrettanto facilmente, due poliziotti in biciletta, o un uccello. O può avere il grugno grosso, come quello di una iena». E Hemingway prosegue: «Adesso si era avvicinata, ma non aveva più forma. Occupava solo spazio».

Ecco come si realizza l’apparente paradosso del vedere l’invisibile, e del vederlo venire, come nella ballata di Goethe messa in musica da Schubert, Il re degli Elfi, quando il bambino morente mormora al padre: «lo vedi anche tu il re degli Elfi?», e non si sa se veda più o meno del padre. La vedi anche tu la terra promessa, cioè (come nel caso di Mosè) la terra che altri vedranno quando non ci sarai più? Nel testo conclusivo di questa raccolta, uscito nel 2004 «Il sopravvissuto, la sospensione, il soprassalto», Derrida ricorda che i nemici lo definiscono un sopravvissuto di una generazione che non è, propriamente, nemmeno la sua, quella dei Deleuze, dei Foucault, dei Lyotard, tutti un po’ più anziani di lui, e lui stesso ha l’impressione che non sarà più letto, che tutta la piramide di testi che ha costruito non gli garantirà alcuna sopravvivenza.

Eppure – proprio grazie all’incertezza del veder venire l’avvenire – «certi segni mi lasciano credere – e nello stesso momento – che ho appena incominciato a scrivere e che, salvo rare eccezioni, si è appena cominciato a leggermi – o che per me, come diceva il mio amico Althusser, l’avvenire dura a lungo».
«Ho appena incominciato a scrivere». Era quello che Husserl scriveva, in punto di morte, a Edith Stein, e che Derrida aveva citato alla fine del suo primo scritto, mezzo secolo prima di morire, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl: «Non sapevo che fosse così duro morire. Eppure mi sono talmente sforzato, lungo tutta la mia vita, di eliminare ogni futilità! (…) Proprio ora che arrivo al termine e che tutto è finito per me, so che devo riprendere tutto dall’inizio». Già allora, citando Husserl, Derrida metteva le mani avanti, e prefigurava una incombenza che ha costituito il tema centrale del suo pensiero: penser à ne pas voir, cioè sia pensare all’invisibile, a ciò che non c’è ancora o che non c’è più, sia pensare al punto da non vedere, come fa la metafisica, che rimuove la morte con un parossismo che ricorda l’istrice appallottolato sull’autostrada.

La conferenza «Pensare al non vedere» Derrida l’aveva pronunciata nel quadro di un convegno, «Vedere e Pensare», che inaugurava le attività della Fondazione del disegno voluta dal suo carissimo amico Valerio Adami. Nella fattispecie, era un controcanto, un divertissement, dice lui, rispetto alla mia conferenza «così seria» (scrive con ironia) intitolata «L’occhio ragiona a modo suo», in cui articolavo il tema della irriducibilità del vedere al pensare. Nel farlo, mi sentivo molto distante da Derrida: parlavo di percezione, qualcosa apparentemente estraneo a un filosofo che, come tutta la sua generazione, aveva pensato alla metafisica, alla politca, al linguaggio. Ripensandoci ora, mi rendo conto che quella sua risposta improvvisata (letteralmente: fatta a braccio partendo dalle scarne note prese sulla prima pagina della stampata del mio powerpoint – quella che si vede riprodotta in questa pagina), parlando dell’esperienza del veder venire l’inemendabile per eccellenza, faceva i conti molto più di me con l’impotenza del sapere rispetto all’essere, dell’epistemologia rispetto alla ontologia.