Finisco il mio percorso cinematografico laterale al festival di Cannes con La vie en grand (diretto da Mathieu Vadepied), storia di un bambino nero, dodicenne, solo, indipendente e coraggioso ma con un’anima dolcissima, come la parte morbida del tortino al cioccolato che da qualche anno va molto di moda nei ristoranti stellati italiani (il cui fascino a me resta misterioso: come si può avere piacere a gustare una miscela dolciastra di farina cruda lievito non lievitato zucchero burro e cioccolato? chissà se piace anche qui a Cannes…).

Adama (interpretato da un naturalissimo Balamine Guirassy) dal nome evocativo, è inserito in un contesto classico di degradata banlieu francese. Sogna una vita migliore, anche se tutto intorno è sempre più misero, non ci sono soldi nemmeno per avere la lavatrice in casa, sotto il portone, tra palazzoni di dieci piani, bande di pusher giocano a guardia e ladri con armi vere, Adama dorme spesso da solo perché la madre fa i turni al mercato. La solitudine e un colpo di fortuna lo condurranno in un’avventura parallela di piccolo spacciatore di quartiere, versione baby. Coinvolge in questo gioco più grande di loro Mamadou, compagno di scuola di dieci anni, piccoletto sveglio e furbetto. Non hanno quasi mai paura, a scuola spiegano loro l’altruismo: fare qualcosa per qualcun altro senza nessun interesse personale. Si chiedono ridendo: “esiste qualcosa così?”. Ma l’euforia del guadagno facile travolge per ingenuità gli animi puri. Un’unica volta provano quello che vendono, hascisc di buona qualità: si fanno due risate e un bel pisolino. Il traffico di droga però è vero, la situazione realmente pericolosa ma alla fine tutto si aggiusta perché esistono anche le persone buone, che si prendono a cuore gli altri anche senza interessi personali e che cercano delle soluzioni possibili anche ai casi più difficili.

La fiaba è da sempre la forma più consona al racconto che contiene lezioni morali di vita. C’è chi la apprezza, chi trae soavità dalla sua semplicità e chi invece storce il naso, si innervosisce e taccia l’operazione per modesta. E’ accaduto così in sala, accadrà di certo pure con la critica. D’altro canto è innegabile il potere, anche solo inconscio, subliminale, involontario che le favole hanno su grandi e piccoli.
A cuor leggero fendo per l’ennesima volta i pochi chilometri di lungomare che hanno come due poli di partenza e di arrivo il Palais du Cinema e il Miramar, sede delle proiezioni della Semaine de la Critique.
Sul trottoir passano donne che indossano ogni tipo di calzatura: in fila, seduta per terra tra transenne, a mangiare una piadina di kamut senza lievito (portata in valigia da Roma) e prosciutto crudo (comprato qui al Monoprix), osservo solo piedi femminili. Resto incantata dai colori, dagli smalti, dalle pose, dai tentennamenti su tacchi dodici. Con le scarpe si va via, non si possono accettare calzature in regalo da fidanzati, in Italia si sa. Ma qui non è un problema: le francesi scelgono i loro accompagnatori, li cambiano, sorridono, sbuffano e avanti il prossimo. Ne sanno una più del diavolo. Geniali ed invidiabili femmine che possiedono una qualità innata: sapere ciò che vogliono. Vorrei essere come loro. Adieu.

Fabianasargentini@alice.it