C’è un articolo di Federico Zeri, apparso su «Paragone» nel 1959, che ha un titolo memorabile: Rivedendo Piero di Cosimo. Non tanto per le intenzioni, una volta tanto legittime, del conoscitore: restituire al pittore uno standard alto di qualità e riassestare, con qualche complicazione, la sua cronologia. Sarebbe bello traslare il senso, e rivedere Piero di Cosimo vorrebbe dire ritrovarlo dopo un lungo viaggio, con un misto di piacere e nostalgia, come se proprio quello fosse l’amico che non si voleva perdere di vista. Eppure sono tanti i pittori fiorentini della fine del Quattrocento con le carte in regola per fare breccia, ma nessuno come Piero riuscì a comporre una cantica così lunare di realtà e immaginazione, popolata di omaccioni callosi, vacche grasse e sileni stupidi. E nessuno, come Piero, propose una linea di luce e di invenzioni così coerente con la gamma nordica, tanto che Roberto Longhi amava definirlo ‘tedesco’ e posizionarlo accanto a un Cranach. Le sue favole hanno sedotto persino preraffaelliti e surrealisti, ma a accusare il fascino di Piero fu per primo Giorgio Vasari, che nella Vita del 1550 lo sistema in una sua categoria di maledetti: l’artista bramava la solitudine, era ‘astratto e difforme’, «se fusse stato più domestico et amorevole verso gli amici, il fine della sua vecchiezza non sarebbe stato meschino». Lo storico aretino avrebbe poi ritrattato, nel 1568, e precisato che il posto di Piero è fra i massimi, come un Giorgione o un Correggio ma di Toscana, all’ingresso della ‘maniera moderna’.
Giudiziosa e misurata al novero di problemi ancora irrisolti è perciò la prima monografica sul pittore ora agli Uffizi, Piero di Cosimo (1462-1522) Pittore eccentrico fra Rinascimento e Maniera (a cura di Elena Capretti, Anna Forlani Tempesti, Serena Padovani e Daniela Parenti, fino al 27 settembre, catalogo Giunti, pp. 432 , euro 40,00), preceduta da una mostra gemella a Washington (chiusa il 3 maggio), con variazioni nei prestiti e nelle posizioni rispetto all’edizione fiorentina.
Ben poco Piero poteva imparare dal suo maestro Cosimo Rosselli, e un altro giovane scalpitante che si formava con lui era Baccio della Porta, che una volta presi i voti sarà Fra’ Bartolomeo. L’esordio è all’insegna delle verità ottiche fiamminghe, di moda in quegli anni a Firenze, con effetti di plein air e di superfici che luccicano. L’astuzia di un giovane ritrattato, immerso in pensieri stupendi, può cedere il passo al candore di un vescovo, ma alle idealizzazioni Piero non vuole concedere niente. Oltre ai polittici che arrivavano via mare, l’altro faro che presto illumina il suo percorso è quello di Filippino Lippi, maggiore di sei anni. Fu lui probabilmente a sussurrare il nome del ventenne a un orecchio interessato, quello di Piero di Francesco del Pugliese (1427-’98), uno che in casa sua poteva rimirare la Madonna Dudley di Donatello. Il primo committente di Piero è questo ricco mercante che partecipa alla vita pubblica, in buoni rapporti con i cugini del Magnifico, e con gusti squisiti in fatto di pittura (è circostanziato il saggio della Capretti in catalogo). Nel ritratto della pala di Saint Louis da lui commissionata a Piero (purtroppo non concessa in prestito, se non per la predella, 1481-’85), il del Pugliese sembra un uomo impossibile da raggirare, reso esperto dalla stempiatura. Per una camera del suo palazzo poi, abitata dal figlio Francesco convolato a nozze, l’artista esegue un ciclo mai visto prima di allora, con le Storie dell’umanità primitiva, dove si dispiega il progresso dell’umanità, dalla fase primordiale a quella civile, ricorrendo al De rerum natura e non solo (una precisa lettura delle fonti è offerta da Vincenzo Farinella). Le curatrici fiorentine sostengono che il ciclo si componga di due pannelli del Metropolitan (Scene di caccia), uno di Sarasota (Costruzione di un edificio), uno di Oxford (Incendio nella foresta) e uno di Londra (Battaglia dei Centauri e dei Lapiti – però quelli inglesi in mostra sono assenti): era un’ipotesi di Panofsky, accettata poi da Zeri. Keith Christiansen invece, da New York, dissente. Il ragionamento proposto agli Uffizi, soprattutto nel saggio della Padovani, è da condividere: in termini di continuità iconografica, stilistica e cronologica, il ciclo ha una sua coerenza (forse è lecito nutrire riserve per il pannello di Londra). Piero scalda i motori: uomini bruti, armati di clave e di mute, lottano con satiri per chi deve accoppare il cinghiale; e c’è chi, nello scontro, ha perso la vita nella radura.
Per un altare di Santo Spirito – chiesa che in quel tempo era palestra e agone per la nuova pittura – licenzia poi la Visitazione Capponi (da Washington, 1488-’90); e anche se da oltreoceano fosse venuta solo quest’opera, bisognerebbe correre alla mostra. Sono rari da vedere in pittura santi così stanchi di leggere manoscritti miniati, o di vergare memorie private su miseri foglietti, e nessuno è così malinconico come questi due, che Piero dipinge nel proscenio. Dietro, due cugine popolane si salutano, ma pare si siano trovate per scambiarsi un paniere. Nel fondo, apertura su rupi verdi e terribili, montagne azzurre sul mare, palazzi allineati come da teorema, con gli stemmi nei cantoni e borghesi che assistono impassibili, dalle finestre, a una strage di innocenti. Una nuova èra sembra aprirsi per il pittore con la pala dello Spedale degli Innocenti, anche questa per gli affezionati del Pugliese (1493): raggiunge una sensibilità autonoma per la luce, che riempie i volti degli anziani di smorfie e quelli dei giovani di purezza, che scintilla sulle perle e sulle corone. Tutti gli avanzamenti di Piero, naturalistici e psicologici, si scoprono al confronto fra un ritratto di Memling e il curioso dittico con Giuliano da Sangallo e Francesco Giamberti (1495 circa): l’architetto, con pennino e compasso nel parapetto, sarà anche immerso in un paesaggio di importazione fiamminga, ma nuova è la trattazione della psiche – si direbbe un tipo snob, rasserenato solamente dal possesso di mezzi intellettuali straordinari.
Negli anni terribili della fine del secolo (1495-1500), Filippino e il del Pugliese junior si infiammano per le prediche del Savonarola, ma Piero non potrebbe andare in direzione più contraria: sempre più lo attrae il senso fantastico e ironico delle cose. Un satiro, per caso in una spiaggia, ha trovato una ninfa morta su un prato e insieme a un cane attonito, la guarda e si chiede come ciò sia possibile. In un’altra storiella, alla scoperta che le api producono miele, satiri e menadi inscenano un concerto rumorista con mestoli, grattugie e ossa di cervo, per convogliarle in un tronco cavo. Passa di lì un sileno che, sciocco com’è, cadrà dall’asino nel tentativo di scippare un favo: poi nessuno riesce a rialzarlo, e giù in risate generali.
Anche i chiaroscuri e le dolcezze di Leonardo, all’altezza del cartone per la Sant’Anna e della Battaglia di Anghiari, interessano Piero; e soprattutto in un tondo di Chicago (1505 circa), la conversione ai giochi degli sguardi è insistita. Non è detto che dal contatto si sia generato un arricchimento e che alla seduzione abbia corrisposto una comprensione. Fra l’altro, la fase finale di Piero è complessa da discernere e alcune proposte attributive e cronologiche in mostra lasciano adito a dubbi. Per esempio, l’Incarnazione Tedaldi degli Uffizi convince di più nei tardi anni novanta (secondo una proposta di Laura Cavazzini del ’97), quando ancora imperversa una chiarezza autentica e smaccata, prima del cupo momento leonardesco. La Liberazione di Andromeda (1510-’15), per una camera nuziale di Palazzo Strozzi, dipinta invece con un occhio a Andrea del Sarto, è il colpo di coda di questo pittore sommamente rabelaisiano, che non rinuncia mai a vedere il mondo con il senno imperversante del gioco.