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L’immagine che dà il titolo al libro di Pietro Perconti La prova del budino. Il senso comune e la nuova scienza della mente (Mondadori Università, pp. 127, euro 11) è un ottimo modo per definire il senso comune, che somiglia davvero a un budino la cui riuscita e consistenza si può saggiare soltanto affondando in esso il cucchiaio. Il senso comune «funziona» infatti in una miriade di casi della vita quotidiana e questo impedisce a un approccio autenticamente filosofico di liquidarlo come un semplice errore. D’altra parte, non è neppure possibile affidarsi a esso in modo acritico.

Uno degli ambiti nei quali il senso comune ha dovuto negli ultimi secoli abbandonare la propria ingenuità è rappresentato dall’eccesso di autostima della nostra specie rispetto a tutto ciò che noi non siamo ma con il quale condividiamo quasi tutto. Consiste, insomma, nell’abbandono dell’antropocentrismo, che da Copernico in poi ha reso sempre più patetica la convinzione di costituire un vertice, un culmine, un’eccezione, qualcosa di speciale nella materia, l’idea insomma «che gli esseri umani siano fatti di una materia ontologicamente diversa da quella del resto della natura».
All’incrocio di senso comune e filosofia sta la questione fondamentale del rapporto tra mente umana e materia, per capire il quale bisogna ammettere che la mente è per intero un dispositivo semantico, poiché il cervello fa di tutto per trovare un senso alla miriade di percezioni, strutture, eventi che lo investono istante per istante, a partire da quel particolarissimo evento che il cervello stesso è.

Perconti ricorda un aneddoto della vita di Einstein, al quale il filosofo Herbert Feigl chiese per quale ragione si debba tenere conto del senso comune, delle «esperienze immediate» che ci fanno intendere le cose in un certo modo. Einstein avrebbe risposto affermando che se tale senso non ci fosse «il mondo non sarebbe altro che un mucchio di terra!».

Si potrebbe obiettare all’autore di non essere rimasto all’altezza di questa intuizione quando scrive che «a differenza del monte Bianco, che esisterebbe anche se non ci fosse nessun occhio a guardarlo, gli oggetti sociali sono dipendenti dalle menti che li contemplano. Sono creature mind-dependent». Non soltanto gli oggetti sociali, infatti, ma anche il Monte Bianco e la Luna se non ci fosse nessuna mente – umana o di altro genere – a guardarli esisterebbero come una qualsiasi forma di realtà prima indefinibile e inespressa ma non esisterebbero certo nel significato che questi oggetti naturali acquistano agli occhi dell’astronomo, del geologo, dell’alpinista, dei poeti, dei viandanti. Ogni ambito della realtà esiste infatti nella spiegazione linguistica che ne danno gli osservatori.

Le simpatie di Perconti sono evidentemente rivolte al funzionalismo e alla sua tesi della realizzabilità multipla del mentale su una varietà di supporti fisici. Sembra tuttavia che in tale concezione permanga un inossidabile nucleo dualistico, rappresentato proprio dal fatto che la mente sarebbe una pura forma implementabile su qualsiasi supporto adeguato alla bisogna: «In definitiva, la mente non è che un insieme di funzioni realizzate computazionalmente da strutture biologiche acconce».

La mente è certo anche un insieme di funzioni computazionali ma è molto altro. E forse il senso comune serve pure a ricordarci questa pluralità, questa differenza.