L’importanza che la formazione filosofica riveste nella carriera di Pierre Bourdieu è nota a coloro che hanno una frequentazione dell’opera di questo controverso intellettuale. Così come è ben noto anche il successivo abbandono del campo filosofico – «nel quale e contro il quale» Bourdieu si è fatto – e la «conversione» alla sociologia, iniziata in terra algerina, quando, militare al seguito dell’esercito francese, il futuro sociologo sperimenta la necessità di strumenti più consoni di quelli della skholè filosofica alla comprensione di un paese sconvolto dalla guerra coloniale. Meno noto – o comunque meno discusso, soprattutto in Italia – è il genere di rottura operata nei confronti della filosofia e il rapporto che Bourdieu da allora in poi intrattiene con la «discipline du couronnement». Numerosi e fondamentali sono i quesiti che emergono: che rapporto instaura Bourdieu con il campo che ha tradito e nei confronti del quale si sente un disertore? E ancora: si tratta di una rottura effettiva e irrevocabile? Ma soprattutto: che proporzioni assume e qual è il vero oggetto di questo tradimento?

La ragione di un tradimento

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In realtà il sociologo non ha mai operato una rottura radicale e definitiva con il filosofo. Il dialogo tra i due è rimasto costantemente aperto, anche se è stato un rapporto tormentato e ambivalente. Si potrebbe sostenere una tesi che potrebbe sembrare paradossale: non solo Bourdieu, a differenza di quanto ha costantemente dichiarato, non è mai uscito dal campo filosofico, ma è proprio in nome di un’esigenza squisitamente filosofica che si è imbarcato nell’avventura sociologica. Un’esigenza che nulla a che fare, tuttavia, con il modo di filosofare che mette in campo la «ragione scolastica», uno degli avversari privilegiati di Bourdieu. Ciò che dà i mezzi per entrare in contatto con l’essere sociale dell’uomo, con la sua grandezza e la sua miseria, è invece una filosofia nuova, «negativa», come recita il sottotitolo della prima edizione delle Meditazioni pascaliane, che non opera separazioni con le cose del mondo ed è consapevole delle condizioni di possibilità del proprio operare. La vera filosofia «se moque de la philosophie», come dice Pascal. L’abbandono e il tradimento si traducono così, in definitiva, in una pratica di ricerca rivolta al mondo sociale e in una visione del sapere scientifico che trovano nella stessa filosofia gli strumenti di una critica della filosofia. Osservato in questa prospettiva, il rapporto di Bourdieu con la filosofia può essere visto come «una delle chiavi di accesso al senso ultimo della sua ricerca».
È la suggestiva tesi che propone Pierre Macherey nel libro appena uscito in libreria per Ombre Corte Geometria dello spazio sociale. Pierre Bourdieu e la filosofia (pp. 118, Euro 10). Il volume, inedito in Francia e pensato per il pubblico italiano, raccoglie tre saggi che Macherey, filosofo francese tra i più significativi dell’attuale scena culturale, ha dedicato a Bourdieu nell’arco degli ultimi anni: Pensare la pratica, Meditare Pascal e Criticare la ragione scolastica. L’interesse di Macherey per la sociologia bourdieusiana non si esaurisce in questi studi. Ce sono anche altri, come annota Fabrizio Denunzio nella postfazione. Ma i saggi pubblicati in questo volume rivestono un’importanza specifica per il pubblico italiano, dal momento che il tema del complicato rapporto di Bourdieu con la filosofia è stato affrontato ben poco dalla pubblicistica italiana. Così come assai scarsa è la riflessione critica sulle Meditazioni pascaliane, il libro al centro dell’analisi di Macherey. Motivi che emergono dal testo di Fabrizio Denunzio, sociologo dell’Università di Salerno, che ha pensato e attuato il progetto editoriale.

La scoperta dei limiti

L’ipotesi di lettura di Macherey è che lo specialista in scienze sociali non abbia mai definitivamente chiuso con la filosofia e che la sua fine ineluttabile sia ancora filosofica, poiché «non si può fare della critica alla filosofia senza filosofia». Dunque se all’inizio del suo percorso Bourdieu sembra escludere la ragione, criticandola, al termine egli ritrova «la ragione in forma trasformata», che ha integrato la coscienza riflessiva dei suoi limiti.
Macherey rintraccia alcune delle figure di cui Bourdieu si serve per portare a termine la critica del punto di vista scolastico e costruire contemporaneamente il proprio punto di vista: l’epistemologia storica delle scienze, con Bachelard e Canguilhem, naturalmente; Merleau-Ponty, Wittgenstein, Austin, e naturalmente Spinoza. La figura cui va tuttavia ha la prevalente attenzione di Macherey è Pascal, e non potrebbe essere diversamente. È sotto l’egida di Pascal che Bourdieu scrive le sue Meditazioni ed è Pascal il nume tutelare delle battaglie cruciali che il sociologo intenta contro i suoi nemici più acerrimi.

Una scienza della prassi

La «relazione privilegiata di connivenza» che Bourdieu intrattiene con una delle figure più eterodosse della filosofia occidentale permette di accedere alla cifra del gesto filosofico bourdieusiano come pratica engagé nella vita e nel mondo sociale. Sì, perché «schierarsi con Pascal contro Cartesio» – opzione in polemica con la tradizione delle Méditationes, a cui ammicca il titolo stesso Meditazioni Pascaliane – significa assumere uno dei temi centrali dell’antifilosofia per promuovere una «nuova filosofia» che si interessi delle cose ordinarie della vita e che offra gli strumenti per entrare in contatto con l’essere sociale dell’uomo. Significa aderire alla denuncia degli errori ai quali sono portati i «mezzo addottrinati» che credono di poter vedere il mondo mettendolo a distanza, di fronte, e dal quale pensano di poter escludere se stessi. Macherey ci restituisce così l’insieme dell’epistemologia di Bourdieu: la necessità di trascendere la «falsa» dicotomia soggetto-oggetto, l’imperativo della riflessività epistemica e la necessità di una conoscenza che superi i limiti della fenomenologia da un lato e dello strutturalismo dall’altro, e che acceda finalmente alla conoscenza del modo di generazione delle pratiche, condizione indispensabile per la costruzione di una scienza sperimentale della dialettica dell’interiorità e dell’esteriorità, e cioè dell’interiorizzazione dell’esteriorità e dell’esteriorizzazione dell’interiorità (in altre parole, dell’habitus).
Pascal non è dunque per Bourdieu soltanto un quadro di riferimento generale, ma una vera e propria «guida, un orientamento e una ispirazione» al lavoro analitico. Per mostrare la validità di questa tesi, Macherey prende in considerazione tre massime pascaliane che Bourdieu riprende per rilanciare la propria riflessione: «sane opinioni dl popolo», «siamo imbarcati» e «noi siamo automatismo altrettanto che spirito». Non sono le uniche ma sono forse le più importanti.

Una situazione schizofrenica

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Se la prima, «proclamando solennemente l’abolizione dei privilegi del pensiero scientifico», offre a Bourdieu argomenti per pensare la pratica senza annientare il proprio oggetto, la seconda sorregge il sociologo nella sua ricerca di una conoscenza dello spazio sociale che includa, con un ritorno critico su di sé, il soggetto stesso della conoscenza. In questa situazione schizofrenica, nella necessità di stare contemporaneamente dentro e fuori, bisogna scommettere per accedere alla «città scientifica», vera e propria utopia razionale chiusa ermeticamente nella propria autonomia.
Qui Macherey coglie il senso del lungo e complesso lavorìo compiuto da Bourdieu per scacciare dal proprio orizzonte l’illusione scolastica e dar vita ad un concretissimo soggetto conoscente il quale possa realizzare un ritorno critico su se stesso, pur assediato, come tutti, dalla doxa. Miseria e grandezza del sociologo, «che porta alla luce l’implicito del mondo sociale e della sua stessa condizione».
«Siamo automatismo altrettanto che spirito» è la massima pascaliana che offre invece a Bourdieu il sostegno per l’acerrima battaglia che da sempre conduce contro il mentalismo, a favore delle ragioni del corpo (che in Pascal sono per la verità le ragioni del cuore). «Noi apprendiamo attraverso il corpo» dice Bourdieu. E ed è nei corpi che s’inscrive l’ordine sociale: «le ingiunzioni sociali più serie si rivolgono non all’intelletto ma al corpo». La conoscenza pratica – radicalmente antintellettualistica – è conoscenza del corpo e attraverso il corpo. È questo tipo di conoscenza che ci permette di agire come conviene in un ordine sociale dato, senza che questa convenienza dipenda da regole esplicite né da un calcolo razionale. L’incontro tra la credenza pascaliana e l’habitus bourdieusiano non potrebbe essere più esplicito né più fecondo. Sia per Pascal che per Bourdieu l’ordine sociale non ha altro fondamento che la credenza, l’abitudine e l’illusione, saldamente ancorati al corpo. Ma per Bourdieu, a differenza di Pascal, l’ordine sociale non è un valore da salvaguardare, ma un’impostura da smascherare e da sovvertire.
Più che a Pascal, qui Bourdieu è vicino a Marx: la sociologia non si limita a raccontare il mondo com’è, ma contribuisce alla sua trasformazione. Così come Marx auspica il «divenire reale della filosofia», Bourdieu affida alla conoscenza sociologica, e alla sua capacità di smascherare i dispositivi del dominio, una funzione di sovversione dell’ordine sociale. Qui si interrompe il legame tra Marx e Bourdieu. Perché se in Marx la realizzazione della filosofia è mediata dalla praxis, in Bourdieu è la conoscenza sociologica che si offre come strumento privilegiato, se non unico, di sovversione politica. Ma porre la questione nei termini di priorità ontologica della ragione sociologica sulla prassi politica nel cuore di una teoria che postula la somatizzazione del dominio, pone seri problemi di coerenza interna alla costruzione teorica di Bourdieu. Problemi che spingono Macherey a osservare come, in definitiva, «attraverso un capovolgimento miracoloso», lo spirito finisca comunque «per trionfare sul corpo e sulla sua logica implacabile».