Sediamo sulla statua di uno squalo, tra foreste di alghe agitate gentilmente dalla corrente, e meditiamo fissando la fauna che nuota attorno a noi, decine di creature marine di ogni colore e dimensione: murene, pesci pappagallo, delfini, mante, testuggini, megattere. Se osserviamo con attenzione, tra le rocce e sulla sabbia, ecco muoversi i crostacei, palpitare rosse stelle marine e strisciare gli invertebrati tra le floreali anemoni. Poi lasciamo il simulacro e nuotiamo, verso nuove sorprese sottomarine. Si tratta di Abzu, gioco indipendente pubblicato da 505 Games, una divisione editoriale di Digital Bros, e svilupato da Giant Squid, un piccolo studio formato da alcuni elementi provenienti dalla realizzazione di un’altra fondamentale esperienza ludico-poetica, ovvero il pluripremiato Journey.

In Abzu non facciamo altro che nuotare, osservare e talvolta risolvere semplici enigmi ambientali, cosa che ha infastidito misteriosamente i difensori di un “gameplay” più sofisticato ritenuto sacrificato nel nome del videogame inteso come arte. Tuttavia perchè le attività di sparare, fare a pugni, saltare o gareggiare dovrebbero essere considerate più videoludiche che nuotare o meditare? Abzu è quindi un videogioco a tutti gli effetti, un’esperienza breve ma supportata da una lirica naturalistica che lo trasforma in un viaggio rivelatore nella bellezza del profondo blu. Un inno alla vita del mare che potrebbe essere paragonato a Finding Nemo della Pixar per la potenza biologica delle sue immagini, se ognuna delle creature e delle piante di Abzu non fosse rappresentata con verismo scientifico.

C’è un ermetico intreccio fantascientifico a supportare quest’immersione virtuale e il nostro avatar con pinne e maschera è antropomorfo ma non umano. La storia non ci è rivelata da nessuna parola, solo dai resti di rari ruderi subacquei sui quali permangono i segni di ancestrali affreschi che alludono ad una catastrofe; li guardiamo e cerchiamo di intuire un passato.

Nella sintetica dimensione di un’opera che merita comunque di essere giocata più volte per rivelare ogni suo segreto e per ammirare ogni panorama, Abzu condensa momenti che emozionano invece di divertire, estasiano in una maniera fanciullesca come quando si guarda un film di Jaques Custeau o i documentari della BBC. Veniamo trascinati dalla corrente sfiorando architetture di corallo, accarezziamo vorticanti banchi di sardine grandi e graziosi come nuvole subacquee, sfioriamo solenni balene blu ascoltando il loro canto profondo, riportiamo in vita orche assassine estinte durante la stasi di salvifici momenti metafisici, ascendiamo verso la superficie per ammirare il cielo specchiarsi sull’acqua sconfinata.

E possiamo realizzare uno dei sogni proibiti di chiunque abbia visto Lo Squalo di Steven Spelberg e abbia provato timore e nello stesso tempo ammirazione per il Grande Bianco protagonista del film, un pesce che esiste fin dai tempi dei dinosauri: nuotare reggendosi alla sua possente pinna frastagliata, così che il temibile “Charcaradon Charcarias”, uno dei più grandi ed efficaci predatori viventi, non ci appare più come una spietata macchina di morte, un mostro del profondo, ma un’animale meraviglioso e bellissimo. Abzu sarebbe da giocare solo per questo se le sue altre merviglie nel blu, esperibili per la durata di pochi stupiti battiti di ciglia, non fossero davvero tante.