Come nella reiterazione di uno dei Truisms lapalissiani dell’artista americana Jenny Holzer – magari: A single event can have infinitely many interpretations –, replicato sulle insegne luminose di Times Square, l’ironia, la leggerezza, l’evasione di stampo dadaista e la fluidità, lo spirito libero e i mezzi espressivi dei Fluxus sono la chiave di volta del linguaggio di una generazione di artiste relativamente giovani, che ha portato alle estreme conseguenze la riflessioni sull’arte di Lucy R. Lippard.
La mostra Pipilotti Rist. Pixel Forest, al New Museum di New York fino al 15 gennaio, a cura di Massimiliano Gioni, gioca con queste premesse, in un viaggio visivo ed esperienziale nel quale lo spettatore percorre tutta la carriera dell’artista svizzera Pipilotti Rist.
Nell’oceano con Chris Isaac
Negli spazi del museo il visitatore è immediatamente calato in una situazione fluida e magmatica, di un fascino indefinito, senza regole e confini, tra veli e luci, suoni e immagini. Lo sguardo è immediatamente attratto da una grande parete ad angolo che accoglie una doppia proiezione riflessa: Sip my Ocean (1996), l’immersione in un oceano profondo accompagnata dalla canzone Wicked Games di Chris Isaac. Inizialmente suadente, la voce culla lo spettatore; mano a mano, diventa sempre più urlata e disperata fino a sembrare una richiesta di aiuto rivolta a chi guarda. C’è una sensazione distorta, allucinatoria, resa grazie ai colori saturi, all’atmosfera onirica e all’intercambiabilità di aria e acqua, elementi di vita che richiamano una dimensione – un naufragio – senza tempo.
L’apollineo, il femminile, non sono innocue presenze eteree, ma hanno peso e forza, con un pizzico di folle isteria. Nel video Ever is Over All (1997) è raccontata una storia senza alcuna logica apparente: una leggiadra ragazza cammina allegra per le strade tenendo in mano un fiore rosso dal lungo stelo. In parallelo scorrono campi di tulipani. L’associazione è rilassante, crea un piacevole equilibrio, troppo per essere duraturo: la ragazza colpisce con una danza, di per sé armoniosa, i finestrini delle auto parcheggiate cui passa di fianco, riducendoli in frantumi. Non è un gesto cattivo ma liberatorio, quasi punk, che cerca, e sorprendentemente trova, un testimone compiacente nell’osservatore. La ragazza prosegue nell’operazione fino a quando non incrocia una poliziotta, interpretata dalla madre dell’artista: dopo un gesto di saluto, la distruzione continua senza interruzioni.
Protagonista di molte opere di Rist è la donna, ormai lontanissima dagli stereotipi della tv commerciale: l’essere femminile coincide con il proprio corpo che è confine e membrana, paesaggio lunare che si lascia indagare e che a sua volta è guida nell’esplorazione. Come in Pickelporno (Pimple Porno) del 1992: un video a canale singolo che nelle stanze del New Museum è proiettato sul pavimento. La visione dall’alto al basso – un capovolgimento estetico e semantico rispetto alle installazioni ambientali recenti presentate in mostra – rende lo spettatore un gigante rispetto all’opera, ma lo mette di fronte anche a un vincolo: non può esimersi dal guardare tutto, perché al suo sguardo ravvicinato non possono sfuggire i particolari. Così ci si scopre involontari voyeur, costretti a indagare il corpo dell’artista che, come in un quadro impressionista, diventa astratto e vago quando si perde la visione d’insieme, e lo sguardo della videocamera si muove da un dettaglio all’altro.
Il corpo non è l’unico elemento che si astrae: lo spazio stesso del museo perde la sua consistenza di rigida white box. L’impressione di immergersi in un’opera d’arte totale, plasmatica, è presente in tutti e tre i piani dell’esposizione attraverso stratagemmi espositivi differenti. Nel primo piano dedicato alla mostra – il secondo del Museo – la reinvenzione dello spazio si concretizza tramite dei veli che, scendendo morbidi dalle pareti nella magica installazione Administrating Eternity (2011), fanno sì che il visitatore diventi a sua volta supporto dei video proiettati, ripensando la propria identità tramite il rapporto diretto con il mezzo video; salendo, attraverso Pixelwad (Pixel Forest) (2016) dove una selva di conglomerati plastici cangianti – pixel, ma anche molecole – crea delle quinte teatrali percorribili; all’ultimo piano dell’esposizione con 4th Floor to Mildness (2016) in cui il pavimento è invaso da letti su cui ci si può stendere per godere delle immagini proiettate a soffitto.
Registro comico, poi tragico
Le creazioni ambientali di Rist sono poste in dialogo con i primi video realizzati a canale singolo come I’m not the girl who misses much (1986), in cui una giovane donna canta ripetutamente la prima frase di Happiness is a Warm Gun composta da Lennon e McCarthy nel 1968: il filmato è manipolato e passa da veloce a lentissimo, assumendo prima un registro comico poi uno tragico. Quest’opera dimostra come non sia necessario un machismo tecnologico o concettuale per esprimersi, seguendo una linea di congiunzione ideale con i video di Nam June Paik o con le performance di Joan Jonas. L’immagine quasi antiestetica è un elemento che si ritrova nell’oggetto più dadaista della mostra, Massachusetts Chandelier (2010): una struttura aerea che sugli attaccapanni di Obstruction di Man Ray appoggia lingerie femminile di ogni foggia, attraversata dai fasci di luce dei video circostanti. In un continuo rimando tra raw materials e alta definizione, le mani di Worry Will Vanish Horizon (2014, dalla serie Worry Work Family), diventano objets trouvés da esplorare e di cui ascoltare la storia.
Lungo tutto il percorso espositivo si istituisce un dialogo tra Rist e lo spettatore, basato su una seduzione apparentemente innocente: l’artista ci attira in una dimensione di riposo e di rilassamento, in una «foresta di pixel» in cui «perdersi e trovarsi». Ed è qui che il dispositivo dell’installazione diventa ambivalente: il nostro spazio biologico, che viviamo e percepiamo come unico, è invece uno dei tanti spazi biologici immersi in un ampio spazio tecnologico onirico e ipnotico. Non esiste privacy: tutti possono osservarci nel nostro intimo momento di abbandono e noi possiamo vedere tutti perdere impercettibilmente il controllo. Nella giusta misura sta l’intelligenza di Rist: il pubblico non è mai portato allo strenuo, non avviene mai uno strappo traumatico e la sensazione che rimane è quella di aver preso parte ad un poetico viaggio para-psichedelico. Nella sua completezza critica, l’esposizione non assume dimensioni mostruose; resta la voglia, e il tempo, per un approfondimento successivo, privato, che permette una reale assimilazione di quanto visto ed esperito.