In un punto imprecisato dell’immensa steppa russa c’è un villaggio che nessuna carta geografica riporta ma che ha un nome: Cevengur. Era da poco scoppiata la rivoluzione e a Cevengur accadde un fatto memorabile, benché non ricordato dagli storici: di colpo sbocciò il comunismo. Proprio come un fiore. E come un fiore appassì e si disfece nello spazio di un mattino.
Che cosa abbia portato a Cevengur il seme del comunismo non è dato di sapere. Forse il diffondersi del sistema delle comunicazioni. O forse uno dei prodigi tecnici dell’epoca come ad esempio la ferrovia, nello specifico la ferrovia transiberiana. Lo dimostrerebbe il fatto che Cevengur ha un suo profeta e questo profeta, Zachar Pavlovic, che è di origine contadina, però non ha occhi che per le macchine create dagli uomini e quando per la prima volta vede una locomotiva ha come una rivelazione.
Ma si può fare anche un’altra ipotesi. La seguente: che a rendere possibile il comunismo di Cevengur e a innescare un processo politico tanto complesso sia stato il sistema dei soviet. Come tutti sanno i soviet o «consigli operai» sono degli organismi cellulari dotati di una loro autonomia e capaci di riprodursi nel corpo della società esattamente come gli organismi cellulari nel corpo della natura. Questo permetterebbe fra l’altro di spiegare l’origine al tempo stesso naturale e politica di quell’evento che ha nome comunismo e che a Cevengur si è manifestato in modo emblematico.
Sia come sia, ci troviamo di fronte a uno strano racconto che non sappiamo come definire e come catalogare: fiaba? romanzo? epopea? Ma i generi letterari qui non aiutano granché. Questo ha semmai l’aria d’essere un esperimento. Sì, un esperimento per portare alla luce con gli strumenti della letteratura e anche della filosofia i tratti di un fenomeno – il comunismo, per l’appunto – per secoli fantasticato e ora realizzato. A immaginarlo comunque è stato Andrej Platonov – Cevengur, a cura di Orbella Discacciati, Einaudi «Letture», pp. 506, euro 26,00.
Platonov si era dichiarato comunista fin da subito. Nel 1920 aveva preso la tessera del Partito (salvo restituirla poco dopo), prestando tuttavia al Partito la sua opera come ingegnere addetto alla bonifica delle campagne. Non ne sarebbe stato ricompensato in alcun modo; ma, ignorato dalla critica, sottoposto a censura, imprigionato, deportato, avrebbe continuato a credere nel comunismo. E a sperare nella sua realizzazione a venire. Anche quando, dopo la pubblicazione su rivista del racconto A buon pro, Stalin scrisse di suo pugno in margine: «Punire in modo esemplare i redattori, e che ‘buon pro’ gli faccia».
Natura o società? Natura o politica? Natura o tecnica? Platonov muove da domande di questo genere. Sa bene che si tratta di un’opposizione inclusiva e non esclusiva. Ma pur sempre di un’opposizione. Tant’è vero che solo tenendo ferma l’antitesi fra i poli è possibile cogliere nella natura qualcosa ancora da scoprire: latenti potenzialità vitali, preziose riserve di senso, incomparabili sorprese. Solo comprendendo che la natura ha ben poco a che fare con quella che è o è stata la società fino ad ora, così come non ha nulla da spartire con la politica e men che nulla con la tecnica, secondo Platonov vedremo venirci incontro dal cuore stesso della natura la sola novità nella storia dell’uomo che è destinata a cambiare non solo la storia ma anche l’uomo: il comunismo. Dopo la quale novità non ci sarà più storia. Ma solo l’uomo senza storia perché vittorioso sulla finitezza, sulla caducità e sulla morte.
Lo sa bene il piccolo Saška, figlio del pescatore che si immerse nello stagno per vedere che cosa ci fosse al di là e che lo stagno restituì tre giorni dopo senza vita. Che cosa ci fosse al di là della morte non lo scoprì il pescatore, ma lo scoprì Saška, già a diciassette anni diventato il compagno Dvanov, a Cevengur. Al di là della morte c’è la vita senza la morte. C’è la vita qual è al di qua della morte. La vita senza la morte. Senza il male, senza la sofferenza, senza l’ingiustizia. La vita, e basta. La vita dove nessuno si chiede quale sia il senso della vita. La vita paga di sé, che non ha bisogno di nient’altro. Soprattutto se questo «altro» è il profitto e quindi lo sfruttamento, non solo sfruttamento reciproco ma prima ancora sfruttamento della terra.
A Cevengur il comunismo è «la forza della natura» che preme tanto negli uomini quanto nelle cose e trova voce nelle questioni che gli abitanti si pongono liberamente gli uni gli altri, questioni come: se il potere dei soviet avrebbe potuto estrinsecarsi «all’aperto» o avrebbe dovuto costringersi nel chiuso delle istituzioni. Risposta: all’aperto. Infatti la terra offre spontaneamente a chiunque il nutrimento necessario – a chiunque si affidi ad essa senza pretendere se non ciò che essa ha da dare, e cioè la vita così com’è, la vita senza alcun surplus di vita. Profitto, sopraffazione, asservimento degli uni agli altri: tutte queste cose sono ciò che il comunismo non è, perché il comunismo è fiducioso abbandono alla vita, è vita che genera vita da sé, senza l’intromissione di pratiche apparentemente umane ma fondamentalmente disumane, come per esempio il lavoro.
Certo il lavoro resta un problema. Non lo si può liquidare affrettatamente. Infatti viene discusso in quell’assemblea permanente che è Cevengur. La soluzione adottata porta la firma del compagno Prokofij e del delegato Cepurnyj: non si vede perché lavorare, se è vero che «ogni lavoro e impegno erano stati inventati dagli sfruttatori affinché oltre ai prodotti del sole restasse loro un plusvalore abnorme» e se è indubbio che «il sistema solare avrebbe fornito per certo la forza vitale al comunismo, purché fosse assente il capitalismo». Rincuorato dall’acquisizione di questa certezza e rafforzato nella sua fede, dopo aver provveduto personalmente a far fuori e a seppellire i resti della borghesia di Cevengur, Cepurnyj va nel verde deserto dei campi a cercare «il presentimento del comunismo».
Non lo trova. E purtroppo non lo trova neanche nei poderosi volumi di Karl Marx, stranamente. Ma per fortuna ci sono gli «ultimi». Essi non hanno nulla. Non solo. Hanno perduto tutto, in quanto sono stati strappati a un mondo (non importa quale) di valori simbolici, di significati condivisi, di sogni e di speranze, e neppure saprebbero dire da quando. Forse da sempre. Ma è proprio questa ultimità, questa povertà totale e senza rimedio, questo essere bisognosi di ogni cosa a far sì che ogni cosa di cui hanno bisogno gli sia restituita. E da chi, se non dalla natura? Infatti nella natura c’è tutto ciò di cui gli uomini hanno bisogno. Né si può dire che la natura tenga per sé questo suo tesoro prezioso. Al contrario, la natura propone se stessa in libera offerta a tutti – a tutti coloro che, trovandosi in una condizione di perfetta indigenza, sono in grado di corrispondere alla generosità della natura.
Eppure i conti non tornano. A Cevengur la vita non è né lieta né felice. Nella patria del comunismo realizzato vivere è patire. Manca l’essenziale. Si fa la fame. Ma c’è di più. C’è che un bambino ha cercato inutilmente di suggere il latte ai seni di sua madre esausta ed è morto. Un bambino non può morire nella patria del comunismo realizzato. Se muore, quella non è la patria del comunismo realizzato, evidentemente. E allora come la mettiamo? Dovremo dire ancora una volta che l’utopia è fallita? O, peggio, che l’utopia non è altro che utopia e quindi non ha luogo perché non può averlo? Platonov con la sua parabola stralunata sembra suggerire un’altra ipotesi, tutta interna alla tradizione messianica. E chiede: forse che il messia non è sempre di là da venire? La parusia, il secondo avvento, la pienezza dei tempi non sono forse qui e ora a misura che non sono mai? Gli abitanti di Cevengur vorrebbero trasformare queste domande in delibere da mettere ai voti. Ma non ce la fanno. Arriva una banda di cosacchi che li passa tutti a fil di spada.