Poche e a caro prezzo. Sono le immissioni in ruolo previste dal ministero dell’istruzione per il prossimo anno scolastico: 33.380 assunti tra docenti e personale amministrativo, tecnico e ausiliare (Ata). La ripartizione comunicata ai sindacati mercoledì scorso prevede 15.400 assunzioni tra i docenti nelle scuola dell’infanzia, primaria, media e superiore; 13.342 insegnanti di sostegno, previsti nel 2013 dall’ex ministro Maria Chiara Carrozza; 4.599 personale Ata.

Per Massimo di Menna della Uil scuola restano vacanti 6 mila posti di organico di diritto per i docenti, nonostante il piano di assunzioni abbia previsto la loro copertura finanziaria che alla fine non è stata garantita. A questa cifra Marcello Pacifico (Anief-Confedir) aggiunge l’elenco di 7 mila insegnanti di sostegno, 14 mila Ata e i circa 4 mila «Quota 96». Sono numeri che coprono i posti resi liberi dai pensionamenti, seguendo la rigida logica del turn-over. «Sono numeri molto inferiori alle effettive disponibilità di posti – sostiene Flc-Cgil – per i docenti su posto comune sono circa il 58%, per i docenti di sostegno circa l’82% e per gli ATA circa il 35%». Insoddisfatti, i sindacati chiedono l’assunzione su tutti i posti liberi anche per garantire le procedure di stabilizzazione per i docenti precari che sono al vaglio della Corte di Giustizia Europea. La prossima settimana dovrebbe essere effettuata la ripartizione effettiva dei docenti e pubblicato il decreto.

Per i neo-assunti ci sarà anche un’amara sorpresa: il primo stipendio da lavoratori fissi resterà bloccato per nove anni. Il Miur ha così mostrato l’altra faccia dell’austerità agli insegnanti tra i meno pagati nei paesi Ocse: lo Stato risparmierà sul primo scatto stipendiale, fissato dal contratto dopo due anni dall’immissione in ruolo. Chi non ha fatto supplenze, ma ha vinto ad esempio il «concorsone», dovrà aspettarne sette in più per avere un aumento. Dopo essere stati precari, si prepara una lunga vicenda da lavoratori sottopagati. «Questo giochino – sostiene l’Anief – è costato agli tra i 2 mila e i 7 mila euro».

Per mandare in pensione gli «esodati» della scuola il prossimo 1 settembre è stato approvato un emendamento nel decreto 90 sul riassetto della Pubblica Amministrazione che l’altro ieri notte ha ricevuto la fiducia alla Camera. Già frutto di uno degli «errori di calcolo» della riforma Fornero delle pensioni, approvata dalle «larghe intese» nel governo Monti, i «Quota 96» sono rientrati nella polemica che ha contrapposto lo zar della spending review Carlo Cottarelli al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.

Il responsabile dei tagli alla spesa pubblica non ha accettato il principio adottato dal governo e dalla sua maggioranza di coprire le spese per il pensionamento dei dipendenti scolastici finanziandoli con i risparmi stimati dalla sua spending review. «Se si utilizzano risorse provenienti da risparmi sulla spesa per aumentare la spesa stessa – ha spiegato Cottarelli sul suo blog – il risparmio non potrà essere utilizzato per ridurre la tassazione sul lavoro».

In poche parole Cottarelli ha esposto la legge dell’austerità espansiva, principio ispiratore della «renzinomics»: si taglia la spesa pubblica, per finanziare i consumi (gli 80 euro del bonus Irpef), tagliare le tasse (il 10% dell’Irap per le imprese), mandare in pensione i funzionari pubblici. Nei 4,5 miliardi di euro previsti, 416 milioni dovrebbero finanziare l’uscita dei «Quota 96».

«L’iter su quota 96 è avvenuto alla luce del sole» è stata la risposta a Cottarelli del ministro Pa Marianna Madia. La decisione è stata presa dopo le garanzie sulle coperture finanziarie fornite il mese scorso dal presidente della commissione Bilancio, Francesco Boccia.

«Se Cottarelli è in vena di dare consigli sull’uso dei risparmi di spesa sulle pensioni – afferma quest’ultimo – si rivolga al governo e solo dopo al parlamento». «La norma non interviene sull’impianto del sistema previdenziale – sostiene Manuela Ghizzoni (Pd), presidente della commissione cultura alla Camera – ma emenda un errore che la stessa ex ministra Fornero ha ammesso: non aver riconosciuto la specificità del comparto scuola dove, indipendentemente dal momento in cui si maturano i requisiti, in pensione ci si va solo il primo di settembre».