Il dibattito politico spagnolo passa ancora una volta per Barcellona. Non solo per la questione territoriale, ma anche perché a Barcellona il patto fra le sinistre il 20 dicembre si è imposto come primo partito. Guidato da Xavier Domènech, molto vicino a Ada Colau, En comú podem ha ottenuto 12 deputati mettendo insieme gli storici rosso-verdi di Icv e Izquierda Unida, Podem (il Podemos catalano) e l’esperienza comunale dalla sindaca di Barcellona.

Nonostante l’obiettivo successo elettorale, Podem è una delle federazioni di Podemos in crisi: da mesi senza una guida, vede una lotta interna fra tre fazioni che si risolverà dopo le elezioni. Chi sembra avere più chance di vincere è l’opzione collegiale guidata da Jessica Albiach (attuale deputata catalana) e dall’attuale portavoce ad interim Marc Bertomeu, 24 anni, laureato in scienze politiche e un master in comunicazione politica e sociale.

Che differenze politiche ci sono fra le tre liste?
In Catalogna ci sono tre assi politici. Il primo è quello destra/sinistra. Qui non ci sono differenze: la linea socioeconomica di tutti è chiaramente di sinistra. Poi c’è quello nazionale. Anche qui non ci sono grandi differenze. Vogliamo tutti un referendum di autodeterminazione. In Catalogna c’è una maggioranza di persone che vuole dire la sua. Indipendentisti o meno, pensiamo che in democrazia ci debbano essere gli strumenti per esprimersi, non solo una volta ogni 4 anni. Infine il terzo asse è quello delle confluenze.

È qui che non c’è accordo?
Lo spazio politico catalano è particolare. Pp e Psoe non sono egemonici. Esistono partiti locali. L’irruzione di Podem ha significato coinvolgere una gran massa di persone che non aveva mai partecipato prima. Che si è aggiunta alla popolazione politicamente attiva. Insieme occupiamo uno spazio comune con altre forze. Come consolidare questo spazio politico? Alcuni vorrebbero mantenere le barriere fra i partiti. Altri pensano che i partiti debbano sparire. Tutti apportano qualcosa. Podem la speranza e la gente, Colau la visibilità, Icv e Iu l’organizzazione territoriale. La divisione della sinistra dipende dal fatto che è più implicata socialmente: abbiamo più militanti che voti; per la destra vale il contrario. Proponiamo una transizione che mantenga le diverse organizzazioni e i diversi modi di lavorare. Quando arriveremo a una confluenza, sapremo se è necessario o no superare i partiti.

Visto che qui la confluenza ha funzionato, che consigli daresti a Pablo Iglesias?
Primo, la generosità. Se vuoi formare una cosa grande, devi cedere su qualcosa e riconoscere i tuoi limiti. E devono cedere tutti, perché tutti pensano che la propria formula sia la migliore. La sfida è capire se anche a livello statale siamo capaci di ampliare lo spazio politico.

Perché ora sì e sei mesi fa no?
L’importante è che ci sia un progetto politico chiaro da qui a 4 anni su alcune cose che possiamo fare assieme. La volontà c’è sempre stata. Ma ora la ripetizione delle elezioni è una pressione in più. Anche se in Podemos c’erano resistenze, penso che, Garzón a parte, è in Iu che si è anteposta la sopravvivenza al progetto politico.

Che errori ha commesso Podemos in questi mesi?
Come tutti ha impostato la campagna elettorale con i criteri di quando c’era il bipartitismo: chi vince, vince tutto. Senza tenere in considerazione la necessità di scendere a patti. E secondo, duranti i negoziati, pensare che il Psoe sarebbe venuto a cercarci per primi. Ma loro stavano già negoziando con Ciudadanos, perché avevano paura di un partito più simile a loro come noi. Qui entra la generosità: al Psoe interessava più sopravvivere.

Senza il problema catalano si sarebbe arrivati a un accordo?
Non è mai stato sulla tavola. È vero che è un tema dolente per i socialisti, e che sarebbe stato un ostacolo. Se si arrivasse a un patto, i socialisti dovranno decidere che fare, se recuperare la loro posizione di due anni fa, favorevole al referendum, o mantenere una posizione che non porta da nessuna parte perché non riconosce neppure il problema.

Che cambierebbe se governasse Podemos?
Vorrebbe dire iniziare un processo per ripensare il modo in cui la Spagna si vede e avviare un progetto plurinazionale. Se vogliamo davvero creare uno stato con democrazia più partecipativa, la decentralizzazione non deve essere di competenze, ma di sovranità. E non c’è bisogno di una riforma costituzionale per incominciare il processo. La nostra scommessa è che buona parte dell’indipendentismo si possa incorporare a questo processo per trovare un nuovo modo di far funzionare lo stato.