La Polonia governata dal partito della destra populista Diritto e giustizia (PiS) ha riattivato la macchina della propaganda politica. Il paese «orbanizzato» dai fratelli Kaczynski continua a mettere sul piatto una narrazione diversa della propria nazione all’insegna di un revisionismo storico basato sulla cultura del sospetto.

La dirigenza del PiS batte il ferro finché è caldo. Anche perché almeno due terzi del paese sono tuttora convinti che le circostanze che hanno portato alla catastrofe aerea di Smolensk non sono state ancora del tutto chiarite. E qui la ragione di stato si incontra con quella familiare, visto che quel Lech Kaczynski, fratello dell’attuale numero del PiS Jaroslaw, è una delle 96 vittime dell’incidente del Tupolev Tu-154M, precipitato in territorio russo il il 10 aprile 2010.

I produttori del film di finzione Smolensk di Antoni Krauze non potevano scegliere momento migliore per l’uscita in patria della pellicola. È la storia di una giornalista che comincia a dubitare della versione ufficiale dei media e della commissione sulla strage, attribuita a una leggerezza dell’equipaggio durante uno dei tentativi di atterraggio a bassa quota. Le confessioni dei parenti delle vittime alla reporter (davvero poco credibili sullo schermo), la porteranno a credere che l’incidente è stato causato dai russi.

Che sia stato il tritolo a bordo, o le informazioni sbagliate arrivate dalla torre di controllo, poco importa: il film ricalca la strategia ufficiale del PiS che accumula ipotesi senza mai voler giungere a delle conclusioni. Il film di Krauze offre anche un ritratto smaccatamente agiografico di Lech che viene presentato come l’uomo simbolo della comunità internazionale nella «resistenza» georgiana contro l’intervento russo durante la Seconda guerra in Ossezia del Sud.

Se poi Smolensk dovesse fare anche breccia nei programmi scolastici l’operazione di propaganda potrà essere considerata un successo, al di là di ogni incasso al botteghino. Nell’epilogo l’aereo esplode in volo prima dell’impatto con quella betulla che avrebbe distrutto un’ala del Tupolev prima dello schianto. Intanto, il livello di paranoia nazionale ha raggiunto livelli insostenibili: la controcommissione convocata dal ministro della difesa e falco del PiS Antoni Macierewicz ha addirittura proposto l’acquisto di un Tupolev dal governo ceco soltanto per lasciarlo precipitare in volo e valutarne l’impatto con un albero.

La settimana scorsa invece il servizio meteorologico polacco aveva ipotizzato l’utilizzo di chaff da parte dei russi per confondere i radar polacchi e lituani intorno all’enclave russa di Kalinigrad.

Una regione che rischia di diventare la zona calda per eccellenza della nuova guerra fredda tra Putin e la Nato. Anche l’arma elettromagnetica è entrata così nella lunghissima lista delle possibili cause delle strage.

Ma a pagarne le spese sono quasi sempre i cittadini: lo storico accordo sottoscritto da Mosca e Varsavia nel 2012 che permette ai residenti russi e polacchi nella zona «calda» di Kalinigrad di attraversare il confine senza un visto è stato sospeso sine die in occasione del summit della Nato a Varsavia dello scorso luglio. Un provvedimento in linea con la politica di chiusura verso l’Altro dei paesi del gruppo di Visegrad, così come emersa durante il recente vertice Ue a Bratislava.

Attribuire la colpa della catastrofe aerea di Smolensk ai russi permetterebbe anche al governo di Varsavia di far passare l’incidente come un episodio di guerra ibrida, giustificando così in futuro un maggiore interventismo della Nato in soccorso degli alleati nella regione.