Bernie Sanders ha chiuso la campagna in California con un concerto-comizio a San Francisco a cui sono intervenuti Fishbone, Dave Matthews, Cornel West, Shailene Woodley e Danny Glover. Hillary da Los Angeles ha risposto con Christina Aguilera, John Legend, Ricky Martin e Stevie Wonder.

Col voto di oggi in sei stati (California, New Jersey, New Mexico, Sud e Nord Dakota , Montana) si concludono le primarie presidenziali. Tecnicamente rimarranno da assegnare gli ultimi 45 delegati democratici di Washington Dc martedì prossimo ma di fatto Hillary Clinton raggiungerà oggi i 2.383 delegati necessari a sancire la sua candidatura. La soglia verrà probabilmente raggiunta nella notte italiana quando verranno conteggiati i voti del New Jersey (prima a votare sulla coste est). Con le ultime due vittorie messe a segno nel fine settimana, nei «territories» delle minuscole Virgin Islands e di Porto Rico Hillary si è portata ad un soffio dal numero necessario e le mancano ora non più di una trentina di delegati per acciuffare la nomination. Da questo punto di vista le votazioni di oggi saranno in gran parte simboliche – il che non vuole dire irrilevanti.

In particolare il risultato in California, con i suoi oltre 500 delegati in palio avrà un peso determinante in queste elezioni che hanno esplicitato una scissione interna nel partito democratico fra corrente istituzionale e quella progressista risvegliata da Bernie Sanders. Nello stato più popoloso, ottava economia mondiale che demograficamente presagisce il futuro d’America, Sanders ha rimontato da una ventina di punti di svantaggio per giungere oggi alla parità statistica fotografata dai sondaggi. Mentre Hillary conta sui segmenti ispanici e afroamericani con cui la famiglia a storici legami, Sanders ha un impressionate vantaggio fra i giovani. Gli elettori under 40 preferisono il socialista del Vermont con un impressionante margine di 5-1. Un dato che permette al senatore di affermare con qualche giustificazione di rappresentare il futuro del partito.

Se Sanders dovesse spuntarla e battere nello stato più popoloso la candidata Clinton, pur nel momento in cui viene «incoronata», sarebbe non solo assai imbarazzante ma legittimerebbe la richiesta di aprire una vera trattativa durante la convention di luglio a Philadelphia. Sanders potrebbe teoricamente chiedere che venisse rimessa in discussione la ripartizione dei «super delegates» assegnati dal partito in gran maggioranza ad Hillary ed eventualmente la stessa nomination. Sarebbe un anomalia ma non certo la prima di questa elezione anomala.

Al minimo una vittoria californiana rafforzerebbe la mano dei progressisti nella trattativa per il programma politico che si dovrà stilare a Philadelphia. Sanders potrebbe insistere su istanze come un minimo salariale e l’università gratuita nella «platform» ed eventualmente partecipare alla selezione del candidato vicepresidente. Incidere cioè con più forza sulla direzione futura del partito e se, come dice Sanders, questo debba rappresentare gli interessi di Wall Street o dei lavoratori.

Mentre la battaglia per l’anima politica dei democratici è ancora da definire, in campo repubblicano prosegue il tragitto paradossale di Donald Trump che ormai candidato in pectore sembra fare di tutto per incrinare la fragile coalizione che appoggia a malincuore la sua candidatura populista. La sua ultima battaglia lo vede impegnato contro il magistrato che lo ha rinviato a giudizio per l’affare «Trump University» (corsi di vendite immobiliari che con la promessa di fabbricare miliardari hanno spremuto centinaia di migliaia di dollari a clienti ignari). Trump ha chiesto che il giudice istruttorio venga squalificato in quanto «messicano» (è figlio di immigrati) e quindi prevenuto contro un «costruttore di muri» sul confine.