Il clima elettorale portoghese è talmente tiepido che ci si potrebbe quasi chiedere se davvero oggi si voti. Il torpore ha oramai pervaso ogni spazio, segno che, forse, la democrazia nella sua versione post, così come descritta da Colin Crouch, non è in grado di scaldare gli animi. Molti, troppi, pensano, a torto o a ragione, che indipendentemente dal risultato, chiunque verrà chiamato a governare, difficilmente sarà in grado di contrastare una linea politica che appare come indiscutibile, immodificabile e, quindi, sostanzialmente immanente.

Eppure, nonostante il torpore, non è corretto considerare il Portogallo come il paese della rassegnazione. No, anzi, tra il 2011 e il 2013 sembrava che la mitica rivoluzione dei Garofani – quella che, con il colpo di stato militare guidato dalle truppe del capitano Maia, aveva portato democrazia e stato sociale – potesse rivivere una seconda volta. Per le strade, nel parlamento, in ogni angolo Grandola vila morena, la canzone di José Afonso che nella notte tra il 24 e il 25 aprile del 1974 diede il segnale alla truppe di uscire dalle caserme, tornava a essere l’inno della possibile riscossa.

Ma le Rivoluzioni durano poco, si vincono o si perdono, ma in ogni caso bisogna fare in fretta se no poi l’avversario si riorganizza. La svolta è arrivata inaspettata nel 2013. Succede, ti sembra di potere toccare il cielo con un dito, che il destino sia lì a portata di mano e invece no, tutto è prossimo alla conclusione. Come non pensare di avercela fatta in un paese nel quale gli scioperi generali si alternavano alle diffuse e capillari mobilitazioni del movimento degli indignati?

Le politiche austeritarie erano pesanti, la disoccupazione, l’emigrazione e il debito pubblico in crescita, il Pil e i consumi in discesa e soprattutto il deficit non ne voleva sapere di volere scendere al 3%. E poi la crisi economica che si fa politica: il 2 luglio il ministro delle Finanze Vitor Gaspar è costretto alle dimissioni, gli succede Maria Luís Albuquerque. Paulo Portas – ministro degli Esteri e leader del Centro democrático social – Partido popular (Cds-Pp), una delle due formazioni componenti l’esecutivo – rassegna le dimissioni. È fatta: il primo ministro Pedro Passos Coelho non ha più una maggioranza. E invece il 24 luglio le dimissioni annunciate come irrevocabili sono ritirate. Portas diventa vice primo ministro, la crisi politica rientra e ogni speranza muore nel breve volgere di una ventina di giorni.

Sempre nel 2013 ci sono state poi le sentenze con cui la corte Costituzionale dichiarava illegittime, perché in contrasto con i dettami della carta fondamentale, alcune delle misure più inaccettabili della rigida politica austeritaria. Tuttavia, quello che inizialmente era sembrato un successo, paradossalmente, si trasformava in una sconfitta. Le bocciature dei provvedimenti di Gaspar ridanno fiato non solo a pensionati e lavoratori pubblici, le categorie più colpite, ma anche, indirettamente, alle destre. Da quel momento in poi molti degli indicatori economici riprendevano a crescere e il dissenso, con la ripresa, perdeva di mordente.

Non basta, perché tra i molti fattori dev’essere menzionato il crollo dello spread rispetto ai Bund tedeschi. La punta massima è raggiunta nel gennaio del 2012: 15,22%. Da allora, poco per volta, la curva si è abbassata: nell’estate 2013 era al 5%, venerdì scorso al 2,2%. Ovviamente, questo “successo” dipende principalmente dal piano di acquisto di Bond varato nell’autunno del 2012 dalla Banca Centrale Europea di Mario Draghi, ma questo poco importa perché sono in pochi a ricordarselo.

Infine, siamo già nel 2014, c’è stata pure la pantomima grottesca della saida limpa, ovvero la conclusione dell’intervento della Troika senza che sia stato necessario approvare un piano di accompagnamento per favorire il rientro del Portogallo al finanziamento diretto sui mercati.

L’equilibrio tra rappresentazione e realtà è sempre molto labile, quel che è certo è che in un contesto del genere è molto difficile mobilitare e convincere che una alternativa non sia solo necessaria ma anche possibile. In poche parole quello che è successo in questi due ultimi anni è molto semplice: l’austerità si è allentata, l’economia è cresciuta, lo spread si è accorciato, il governo non è caduto e il ciclo di protesta si è concluso lasciando un grande sentimento di profonda disaffezione. Se i sondaggi sono riusciti a catturare correttamente gli umori dell’opinione pubblica, speriamo di no, in questa domenica elettorale saranno in pochi a recarsi alle urne e la destra dovrebbe aggiudicarsi una vittoria di misura che però non le dovrebbe permettere di governare da sola.