Uno degli effetti secondari e inaspettati della vittoria di Syriza è stato sicuramente quello di avere svelato chi fossero e quanti fossero i partigiani dello status quo. Ha obbligato cioè tutti a prendere una posizione netta che andasse al di là dell’opacità con cui in Europa vengono prese le decisioni.

Dalle nebbie dell’ultimo consiglio europeo è infatti emerso un consenso intorno alle politiche austeritarie decisamente maggiore di non quanto molti si sarebbero aspettati. L’interpretazione fino a qui preponderante è stata quella in cui a un nord intransigente si opponeva un sud che supinamente doveva subirne i diktat. E invece nei giorni scorsi la resistenza al nuovo spirito di Atene è stata forte ovunque, ma è in Portogallo che, probabilmente, il fanatismo troikista ha raggiunto livelli parossistici.

Ricapitolando: lo scorso venerdì 20 febbraio, nei momenti più delicati e caldi della trattativa tra la Grecia e l’Eurogruppo, Lisbona si schiera convintamente dalla parte dei falchi. Il giornale Die Welt rivela come la ministra delle finanze portoghese Maria Luís Albuquerque abbia personalmente chiesto al suo omologo tedesco Wolfgang Schäuble fermezza. La televisione greca Skai Tv riferisce poi come Spagna e Portogallo abbiano fatto forti pressioni affinché un accordo in cui si accogliesse i nuovi orientamenti del governo greco venisse bloccato.

Yanis Varoufakis durante la conferenza stampa che segue la riunione dell’Eurogruppo cerca di mettere acqua sul fuoco per stemperare tensioni sempre più ingestibili, così, quando un giornalista gli chiede cosa pensasse delle posizioni assunte dagli esecutivi iberici, si limita a rispondere che non concordava ma che tuttavia cercava di capirne le motivazioni. I toni diplomatici durano poco perché Varoufakis, pochi minuti dopo, non accorgendosi che i microfoni della televisione pubblica portoghese erano ancora accesi, commenta stizzito: «Spagna e Portogallo vogliono mostrarsi più tedeschi dei tedeschi».

Ad avvalorare la tesi del «consenso» intorno alle politiche austeritarie uno studio pubblicato recentemente da Catherine Moury – ricercatrice in scienza politica all’Università Nova di Lisbona – relativo ai processi di negoziazione del bailout del 2011. Basato su 28 interviste a ministri, o ex, e sottosegretari, Moury evidenzia come il rapporto tra la Troika (Fmi, Ue, Bce) e il Portogallo sia stato tutt’altro che improntato alla sudditanza dell’uno sull’altro ma che anzi ci sia stato tra i due una sostanziale visione su ciò che fosse necessario fare per «mettere i conti a posto».

Fondamentalmente lo stato di eccezione che si è venuto a creare con la firma del Memorandum ha rappresentato un’opportunità che ha permesso di adottare provvedimenti che in un contesto normale, non avrebbero mai potuto essere approvati. A conferma, anche alcuni commenti di António Lobo Xavier – ex deputato del Centro Democrata Social, uno dei due partiti ora al governo –il quale ha dichiarato come nella primavera del 2011 il centrodestra avesse fatto pressioni affinché una riottosa Angela Merkel accettasse di «imporre» al Portogallo un intervento simile a quello approvato un anno prima in Grecia.

Che l’intervento della Troika sia stato non solo auspicato, ma anche favorito e condiviso dalle élite lusitane, o almeno da una parte di queste, non vi sono dubbi, così come non vi sono dubbi che in tutti i consessi il governo guidato da Pedro Passos Coelho abbia mantenuto un atteggiamento di chiusura a qualsiasi tipo di innovazione. In questo senso la questione della violazione della sovranità nazionale e di una supposta dicotomia stato/Europa e nord/sud appare come un problema mal posto.

Queste spiegazioni tendono ad assumere un carattere autoassolutorio e vagamente nazionalistico nelle quali poi si omette quella che sembra essere la vera chiave di lettura e cioè quella basata su di un conflitto tutto ideologico e assolutamente non geografico. Riprendendo una categoria che oggi molti vorrebbero desueta, è evidente come ci si trovi di fronte a uno scontro che oppone una sinistra ugualitaria a un universo politico predominantemente convinto dell’efficacia delle politiche di tagli.

Vista sotto questa luce la portata rivoluzionaria della vittoria di Alexis Tsipras è dirompente perché mostra come il problema non siano le politiche di bilancio in sé, ma anche come i carichi di bilancio vengono distribuiti. Questo è certamente l’aspetto che risulta meno digeribile al governo Passos Coelho che per anni ha negato che altre vie fossero praticabili a meno di non volere uscire dall’Euro e precipitare inevitabilmente verso il baratro.