Ormai non lontano dalla sessantina, e con dodici romanzi alle spalle, Richard Powers è considerato da recensori e critici, insieme a William Vollmann e David Foster Wallace, l’esponente di punta di una generazione che, di vent’anni più giovane rispetto a quella dei Pynchon e dei DeLillo, ha saputo raccoglierne l’eredità superando qualunque secca autoreferenziale e trasportando in una nuova dimensione narrativa il senso di instabilità del reale e della sua rappresentazione letteraria che contraddistingueva l’esperienza postmoderna. Fin dal suo straordinario esordio, Tre contadini che vanno a ballare, Powers ha saputo tradurre in strutture complesse e vertiginose i grandi nodi della cultura novecentesca, spaziando da riflessioni complesse e acutissime sull’impatto della scienza e delle sue evoluzioni sull’individuo e sull’arte (tema centrale di quello che rimane forse il suo capolavoro, Galatea 2.2) a cavalcate originalissime nella storia europea e americana, nelle quali la prospettiva della narrazione si sposta costantemente, e con inesauribile moto oscillatorio, tra le macrovicende che hanno segnato l’esistenza collettiva e le vicende, esemplari proprio perché irriducibilmente originali ed eccentriche, di singoli individui. Tra raffinati montaggi alternati e una scrittura sorvegliatissima, nella quale ogni parola e giro di frase accoglie in sé una molteplicità di significati e di aperture, Powers ha attraversato tre decenni, lasciando in ciascuno di essi un’impronta decisiva. La sua traiettoria di scrittore, dopo aver raggiunto forse il suo culmine ne Il tempo di una canzone, memorabile ritratto di un paese attraversato dalla piaga del razzismo, dagli anni trenta fino a oggi, aveva conosciuto un lieve appannamento nei suoi due ultimi libri, Il fabbricante di eco (pure, insignito del National Book Award, quasi a voler premiare, già fuori tempo massimo, più una carriera che non il singolo romanzo) e Generosity: ricchi entrambi di spunti interessanti e sorretti dal consueto magistero, ma strutturalmente meno sorprendenti e coraggiosi, e animati da una vena didascalica non sempre convincente.

Ora, con Orfeo (Mondadori «Sis», pp. 343, euro 19,00), Powers torna a puntare alto e a rischiare. Soprattutto, e con il consueto stile avvolgente, insieme immaginifico e di un’esattezza e un rigore che tradiscono la formazione da scienziato (stile reso con padronanza e ricchezza di soluzioni e registri da Giovanna Granato), punta nuovamente su ciò che sa fare forse meglio di qualunque altro autore americano contemporaneo: seguire con dovizia di dettagli una vicenda di per sé profondamente individuale e idiosincratica lasciando che le scorra accanto la storia di un paese, dalla Seconda guerra mondiale alla Guerra Fredda, dal Vietnam e le rivolte degli anni sessanta al riflusso e al reaganismo.

Apparentemente, sarebbe difficile trovare un personaggio più distante da qualunque dimensione pubblica di Peter Els, il protagonista indiscusso di Orfeo: musicista sperimentale e accademico in un oscuro college della Pennsylvania, ha dedicato la sua intera esistenza allo studio dei maestri del Novecento e della miriade di suoni che attraversano il creato, animato da una convinzione assoluta, sintetizzabile in uno dei tanti aforismi che intervallano le varie sezioni del romanzo: «La musica migliore dice: sei immortale». Peccato che, come chiarito nel prosieguo dell’aforisma, oramai il termine «immortale» significhi «oggi, forse domani. Fra un anno, con un po’ di pazza fortuna», e che il sogno di una forma musicale perfetta, in grado di trascendere qualunque orizzonte temporale, si scontri con l’illusorietà di un mondo nel quale «non c’è salvezza. C’è solo dimenticanza».
La vita di Peter scorre dunque parallela rispetto alla storia ufficiale e collettiva, reclamando costantemente per sé uno spazio altro e immergendosi nell’esplorazione dei rumori del mondo, e delle forme in cui essi sono stati e continuano a essere trasposti. Finché, ormai pensionato, e dopo una serie cocente di disillusioni sul livello di durevolezza e universalità che le sperimentazioni musicali sono in grado di raggiungere, Peter decide di dedicarsi alla microbiologia, cercando di trovare nelle moltiplicazioni del DNA o nella straordinaria resilienza dei batteri le chiavi di un universo elegante e spietato, animato anch’esso da una musica segreta e infinitamente più durevole e perfetto di qualunque umana creazione. Non è un’impresa impossibile: nell’era di internet e di Ebay, un capitale modesto è più che sufficiente per costruire un laboratorio in casa, composto di pochi elementi ma perfettamente funzionale e autosufficiente. Peccato che gli Stati Uniti siano in piena paranoia post-11 settembre, e che gli apparati di Sicurezza non esitino un istante a gettare l’occhio sulle attività di Els, sequestrando il laboratorio e costringendolo alla fuga. A Peter non resta che trovare rifugio nello chalet di un’amica, in mezzo ai boschi, e di lì, con l’aiuto di un telefono cellulare e di una testardaggine consolidata nel corso di decenni, cercare di realizzare finalmente il suo capolavoro, approdando a un’arte che sappia, attraverso i mille suoni del mondo che vengono sistematicamente ignorati, parlare in modo nuovo alla coscienza degli uomini.

Questa breve sintesi della trama dovrebbe essere sufficiente a comprendere come, in Orfeo, Powers ricapitoli in una nuova orchestrazione, coerente e armoniosa, molti dei temi e degli interessi che attraversano la sua opera: una nuova visione del rapporto tra scienza e arte, concepite come entità non già distinte e separate, ma complementari e imbricate (Els sente quotidianamente la musica nel cuore delle infinite combinazioni chimiche e biologiche, e insegue al contempo un’arte che riproduca in piena autonomia la ritmica dell’universo); la capacità di lavorare all’intersezione tra individuo e storia, senza mai fare del primo un exemplum, ma scavando nelle idiosincrasie dei suoi personaggi perché svelino qualcosa di nuovo su realtà e fatti che siamo abituati a dare per scontati; il tentativo di raccontare la complessità sfuggente di un mondo sovraccarico di informazioni ricorrendo a un linguaggio nuovo, una scrittura di concettosità quasi barocca ma mai gratuita che costringa il lettore a leggere, fermarsi, rileggere.

Erede in questo più dei grandi maestri del modernismo anglosassone che della metafiction postmoderna, Powers rinuncia deliberatamente alla garanzia di patti narrativi o di mappe concettuali, optando invece per un’esplorazione dei dilemmi che formano l’ossatura della coscienza contemporanea. Proprio dall’assenza di qualunque coordinata certa e preordinata derivano insieme il suo fascino e l’effetto di disorientamento con cui è necessario fare i conti, se ci si vuole avventurare nella lettura di molte delle sue opere. Definire Orfeo un romanzo sull’11 settembre e sulla sindrome paranoica nella quale ha gettato la coscienza americana sarebbe non tanto sbagliato, quanto limitativo e fuorviante. E non perché Powers non affronti il tema (tra l’altro, il personaggio di Peter Els è con ogni probabilità ispirato al «bioartista» Steve Kurtz, effettivamente arrestato, detenuto in base al Patriot Act e accusato di terrorismo) e non sappia raccontare in pagine di grande efficacia le cessioni di libertà e gli abusi generati dagli attentati alle Twin Towers, ma perché il suo sguardo è sempre anche altrove, e muove in primo luogo da una fascinazione per la musica e il suo mistero che aveva già rappresentato l’ossatura di quello che forse è il suo libro più ambizioso, The Gold-Bug Variations, ancora in attesa di traduzione in Italia. È sul confine tra scienza e arte che, qui come in tante sue opere precedenti, Powers decide di giocare la sua partita. Con una differenza significativa, almeno rispetto agli ultimi due – minori – romanzi: la rinuncia a qualunque tentativo di semplificazione, e la scelta, davvero vincente, di filtrare l’afflato teorico e la ricerca linguistica attraverso la coscienza di un personaggio memorabile. Settantenne in fuga costretto a confrontarsi con la vecchiaia, i fallimenti, i fantasmi del passato, ma pronto, indomitamente, a rimettersi in gioco e rivivere per un’ultima volta il suo sogno di artista, Peter Els affascina il lettore e riscalda il romanzo, colmandone le pagine di un’umanità dolce e dolorosa.