Kafka era Praga e Praga era Kafka. Niente era mai stato così completamente e tipicamente Praga, e mai più qualcosa poteva esserlo così come accadde ai tempi della vita di Kafka», diceva Johannes Urzidil, l’autore di racconti in cui la città boema era protagonista come e più di una persona. L’opinione di Urzidil fa da incipit al libro di Patrizia Runfola Praga al tempo di Kafka uscito per le edizioni Lindau (pp. 280, euro 19) nella collana «Le Comete», dove è anche approdato – e si farebbe bene a leggerli entrambi quasi come testi complementari – Kafka. Una biografia di Gérard – Georges Lemaire (pp. 328, euro 24).

Patrizia Runcola ci conduce per mano dentro una «Praga magica» (titolo del fondamentale libro di Angelo Maria Ripellino) e intrigante, abitata da avanguardie artistiche di ogni tipo, dalla pittura (enorme l’influenza cubista) alla letteratura (con la grande scoperta di Apollinaire per i caffè letterari della città), al cinema. «Praga era una fitta mappa di cenacoli e di associazioni letterarie», scrive Runfola nel suo peregrinare per la città.

Dopo la fondazione del Circolo di Praga da parte dei poco più che ventenni Max Brod, Oscar Baum, Franz Kafka e Felix Weltsch, gli universi letterari mutarono irreversibilmente. E iniziò un fitto programma di avversione alla decadenza dei neoromantici, a una letteratura definita artificiosa e falsa. Sempre, in cima ai pensieri, il paesaggio urbano. E fu proprio l’amico più intimo di Kafka, Max Brod, a definire la linea dominante del gruppo: «Il nostro maestro e il nostro programma era Praga, la sua gente, le sue lotte, le sue speranze racchiuse in molti cuori». Il libro è introdotto da una breve intervista a Claudio Magris che immagina la città fluire come un «racconto che contiene emozioni, di storie misteriose, di scrittori, di artisti, architetti come se fossero ancora vivi, e di luoghi che si narrano da sé penetrando in tutte le pieghe di queste culture».

E poi c’è la morte prematura di Kafka che prelude alla fine di un mondo. E di un’atmosfera irripetibile. Su questa improvvisa «assenza», apre squarci di luce il volume di Gérard-Georges Lemaire, che aggiunge alle biografie esistenti sullo scrittore l’indagine minuziosa sull’uomo – le nevrosi, i condizionamenti, quel modo di porsi in bilico tra una timidezza antica e il desiderio di declamare in pubblico i propri scritti.

Va considerata, inoltre, la sua leggenda infinita, alimentata senz’altro dal lascito testamentario all’amico Brod (era incaricato di distruggere le sue opere, ma molti capolavori vennero pubblicati postumi. Quest’ultima ha percorso la scrittura di diversi autori contemporanei che non hanno resistito al confronto con il suo mito, da Sartre a Bataille, da Borges a Roth, da Nabokov a Kundera, da Deleuze a Guattari, fino agli italiani Galasso, Magris, Citati.