La commissione Giustizia del Senato ha licenziato il testo base della riforma del processo penale, con prescrizione acclusa. E’ quello già approvato dalla Camera senza una virgola modificata. Lumia, capogruppo Pd in commssione esulta: «Grosso passo avanti». Ma de che?, commenterebbe il suo premier. Di passi avanti, nel vertice mattutino al ministero della Giustizia, col guardasigilli a sorvegliare e mediare, non ce ne è stato neppure mezzo. Il testo è passato, con le opposizioni di destra sull’Aventino per averlo dovuto votare senza neppure il tempo di leggerlo, i pentastellati astenuti e il voto strappato coi denti dell’Ncd, solo in virtù dell’impegno a non far mai arrivare quel testo al voto finale. Bisogna riscriverlo entro il 25 maggio, termine per la presentazione degli emendamenti. Più facile dirlo che farlo.
I centristi puntano i piedi sul testo originario del governo, con i suoi “appena” 15 anni e mezzo di termine innalzato nei casi di corruzione. Governo e Pd insistono per i 18 anni. Il relatore Casson ritiene che la legge votata dalla Camera, coi suoi 21 anni e mezzo, sia «il minimo sindacale», ma lavora a un intervento di «sistema» su tutta la prescrizione, non limitandosi alla corruzione. Più o meno la proposta dell’M5S, rilanciata ieri da Davigo: prescrizione interrotta con il processo di primo grado. Il battagliero presidente dell’Anm è tassativo: «La prescrizione è ineliminabile ma dovrebbe non decorrere più dopo che il processo è iniziato».

Tutti ripetono che una soluzione si troverà, e così certamente sarà. Ma dovendo mettere insieme posizioni che vanno da quella di Casson (e del potere togato) a quella di Verdini non sarà una passeggiata. Proprio su questo spinosissimo tema, infatti, gli alati di Denis hanno fatto il loro esordio ufficiale nella maggioranza. Ufficiale ma anche no. Nel vertice di ieri mattina Ciro Falanga, cordata Nicola Cosentino, il ras forzista campano finito in galera con l’accusa di essere l’uomo dei casalesi nel Palazzo, era seduto proprio a fianco del relatore Casson. Come protagonista, non come osservatore. Ha detto la sua e alzato lo scudo contro ogni proposta di alzare i termini oltre i 15 anni e passa del testo originario.

Nulla di strano. E’ quello che il capo aveva già detto nell’incontro ufficiale col Pd della settimana scorsa. Bizzarro e increscioso, è invece il balletto bugiardo che viene allestito quando la voce sulla presenza dell’alato trapela. Il collega Lucio Barani nega: «Ohibò, era con me!». Il diretto interessato, a domanda diretta, glissa: «Sono impegnatissimo, sorry». Poi, colto senza più impegni da addurre risponde: «No. Non c’ero!». Casson confuta: «Ma se eri seduto accanto a me!». Il pizzicato corregge: «C’ero ma mica stavo al vertice. Soggiornavo in corridoio in attesa di essere messo al corrente». L’austero capogruppo Pd Zanda conferma: «Ma sì, certo, al termine della riunione li abbiamo informati». Questione di cortesia, è chiaro. Dire patetico è poco.

In realtà il Pd contava sulla segretezza, il che nella politica italiana significa essere non ingenui ma sprovveduti. Ma i verdiniani al vertice dovevano esserci perché Renzi è tra due fuochi e deve trovare un pertugio per uscirne, prima del voto, come vuole lui: con l’aura del castigacorrotti ma anche con una maggioranza al Senato. Senza Ncd a Ala, quella maggioranza non c’è. L’ipotesi di rivolgersi all’M5S non sta né in cielo né in terra, sia perché sarebbe disastroso in termini d’immagine sia perché quelli non si accontenterebbero neppure dei due decenni fissati dalla Camera.

Di qui al 25 maggio Renzi, Orlando, Zanda e Lumia dovranno trovare un punto d’equilibrio che dia qualche soddisfazione ai soci di maggioranza, conclamati e non, ma che nella sostanza tenga buoni i togati. Perché una cosa Renzi ha capito nella tempesta delle ultime settimane: mai arrivare a un conflitto col potere della magistratura in prossimità di scadenze elettorali. Non è un caso se ieri ha inaugurato la giornata assicurando che tra il governo e i giudici non c’è la pur minima ombra e la ha conclusa ordinando la retromarcia a quel Fanfani che aveva osato mettere in dubbio l’arresto di Simome Uggetti.