Il momento della verità sulla prescrizione si avvicina e le tensioni latenti nella maggioranza rischiano di trasformarsi in scontro aperto. Pietra dello scandalo sono gli emendamenti dei relatori, entrambi Pd, Casson e Cucca. I due evitano di infilarsi nello scontro tra chi vorrebbe termini di prescrizione nei casi di corruzione biblici, come quelli usciti dal testo della Camera che prevede 21 anni, e chi solo lunghissimi, come i centristi di Area popolare i cui emendamenti porterebbero il termine a solo 16 anni e mezzo. Propongono invece di rivedere la norma da capo a piedi.

Due le possibilità prese in considerazione: fermare la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, ipotesi messa in campo e sponsorizzata dal battagliero presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, oppure far decorrere i termini non dal momento in cui il reato viene commesso ma da quello in cui la notizia di reato viene acquisita dal magistrato, cioè dall’inizio dell’indagine. Una strada, quest’ultima, sostenuta a spada tratta dal Fatto. In entrambi i casi tanto varrebbe eliminare direttamente la prescrizione.
Il merito pesa, ma c’è anche un versante più schiettamente politico non secondario. Le proposte dei relatori sono state accolte con favore dall’M5S, anche se l’ormai di fatto leader Di Maio ha messo subito le mani avanti: «Però vorrei sapere se sono solo del relatore o condivise dal governo». Sul fronte opposto, la sinistra Pd, che è a favore degli emendamenti, invita a non discuterli con i verdiniani. Il gruppo Ala non fa in effetti formalmente parte della maggioranza ma in materia ha già messo becco nell’incontro con il Pd che avrebbe dovuto svolgersi al Nazareno e che fu poi spostato per motivi di opportunità nelle sale del gruppo Pd a Montecitorio.

D’altra parte pretendere che arrivino con i loro voti ogni volta che servono senza poi avere voce in capitolo sarebbe un po’ troppo.

I centristi insorgono. Il capogruppo al Senato Schifani detta una nota al vetriolo: «Apprendiamo con stupore che i due relatori hanno presentato modifiche opposte agli impegni assunti dal ministro Orlando. Invitiamo al ritiro delle loro proposte, mai discusse e non condivise». Mette quindi il veto a qualsiasi voto comune Pd-M5S. Si muove persino il leader e ministro degli Interni Angelino Alfano: «Nella commissione Giustizia del Senato c’è un’area giustizialista storica della vecchia sinistra, un residuo giustizialista».

Sarà proprio come dice don Angelino? Per quanto riguarda Felice Casson certamente sì. Non a caso già da settimane le fonti del Pd segnalavano la distanza fra le posizioni del relatore e quelle del partito, per non parlare del governo, e in effetti il capogruppo Zanda, ieri pomeriggio, non ha perso un attimo nel rovesciare litri d’acqua sulle fiammelle prima che l’incendio divampasse: «Ho parlato con Casson e Cucca. Mi hanno comunicato che i loro emendamenti sono ipotesi di lavoro. Il loro contenuto sarà oggetto di analisi e confronto nei prossimi giorni nel gruppo Pd e in maggioranza». Calma e nervi saldi amici centristi, che la trattativa è in corso e certo non si chiuderà come Casson comanda.

Ma se Casson è effettivamente un esponente della minoranza, decisamente autonomo anche rispetto a quell’area, Cucca è invece un renziano di ferro. Difficile pensare che abbia avanzato una proposta così estrema senza il beneplacito del capo.

Le spiegazioni possibili sono due, e non si escludono tra loro. La più probabile è che il premier voglia giocare la carta giustizialista in vista delle elezioni. La discussione inizierà tra una ventina di giorni, probabilmente prima dei ballottaggi, ma si concluderà tra un mese, a urne chiuse. Ci sarà tempo per mediare una volta incassati i dividendi elettorali.

Ma non c’è solo questo. Il premier mira davvero a strappare una legge drastica sulla prescrizione in materia di corruzione. Ne ha bisogno per siglare la pace con i togati in vista del referendum: poche cose lo impensieriscono più di una discesa in campo aperta dei magistrati a favore del no. Se si arriverà a un confronto più ruvido, sarà solo dopo aver messo in cassaforte il plebiscito.

Per farcela deve aver ragione delle resistenze dei soci di maggioranza, conclamati come Ap o clandestini come Ala. Mettere in campo un’ipotesi radicale gli è utile per poi chiudere su una mediazione più vicina alla sua opzione rigida che a quella dei centristi.