La settimana scorsa sembrava fatta: Hillary Rodham Clinton sarà il prossimo presidente degli Stati uniti. I grandi giornali, ormai annoiati da una campagna elettorale che durava da quasi due anni, avevano già incoronato Hillary, a cui i sondaggisti davano il 90% di probabilità di vincere. Già circolavano le speculazioni sul dopo: sarebbe stata un’amministrazione centrista o no? Sarebbero entrati i sostenitori di Bernie Sanders? Ci sarebbero state molte donne? Barack Obama sarebbe stato nominato giudice della Corte suprema?

Poi sono arrivati i dati sull’enorme aumento del costo delle assicurazioni sanitarie, il frutto della riforma fatta approvare da Obama nel 2010, e i repubblicani hanno rialzato la testa. Certo, i sondaggi danno sempre la Clinton in vantaggio, circa sei punti percentuali, ma questo era prima delle notizie sulla sanità. Il meccanismo dei «grandi elettori» che, stato per stato, votano il presidente, favorisce Hillary, ma il grande spettacolo non è ancora terminato e molte cose possono ancora succedere prima che si chiudano le urne l’8 novembre.

Innanzitutto, le campagne elettorali americane spesso vedono ridursi il distacco tra i due candidati nelle ultime ore: nel 1968 e nel 1976, per esempio, i sondaggi favorivano i candidati che poi effettivamente vinsero, Richard Nixon e Jimmy Carter, ma nelle urne il margine fra democratici e repubblicani, in entrambi i casi, fu molto ristretto. In un paese politicamente spaccato in due, si vota soprattutto contro l’altro candidato, più che a favore del proprio, e quindi anche gli elettori che non amano il rappresentante del partito alla fine si rassegnano a votare per lui. Molti repubblicani, all’ultimo minuto, si convinceranno a votare per Trump.

Il secondo motivo è che i candidati «impopolari» (cioè giudicati in modo negativo sui grandi media) vengono sottostimati nei sondaggi perché una frazione dei loro sostenitori non osa confessare la propria preferenza. Quindi nelle urne spuntano più voti di quanto ci si aspettasse per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europa, o per il candidato neonazista alla presidenza dell’Austria.

È molto probabile che qualcosa di simile accada anche per Trump. Il terzo motivo è che, nella politica americana, 12 giorni sono un’eternità: se ai dati su Obamacare si aggiungessero un attentato sanguinoso o nuove rivelazioni di WikiLeaks su Clinton la sorpresa dell’ultimo minuto è possibile. Di solito non accade: nella storia, i candidati indietro nei sondaggi a questo punto del processo elettorale non hanno mai vinto, ma il 2016 non è un anno come gli altri e la profondità della rabbia sociale che ha portato Trump fin qui non è stata ancora misurata esattamente.
Se le cose andassero in questa direzione, il meccanismo elettorale americano è così contorto che Clinton potrebbe vedersi sfuggire la presidenza pur prendendo più voti dei suoi avversari (come accadde ad Al Gore nel 2000) o, addirittura, potrebbe spuntare dal cilindro un terzo candidato: un certo signor Evan McMullin di cui finora nessuno ha parlato.

McMullin è un candidato indipendente che si presenta in soli 11 stati ma la sua base di sostegno è lo Utah. È un repubblicano ortodosso, conservatore e soprattutto è mormone, il che crea una situazione interessante: lo Utah è uno degli stati più conservatori degli Stati uniti e nel 2012 Mitt Romney ottenne il 72,5% dei voti contro il 24,6% di Obama, quasi cinquanta punti percentuali di distacco. Per Trump, dovrebbe essere una passeggiata. E invece no.

Negli ultimi sondaggi, McMullin raccoglie il 31% delle intenzioni di voto, contro il 27% a Trump e il 24% a Clinton. Dove sta il mistero? Sta nel fatto che i mormoni -religiosi, frugali e perseguitati per ragioni religiose nell’Ottocento- detestano il miliardario playboy, pluridivorziato e costruttore di casinò. L’etica dei pionieri semplicemente non va d’accordo con i balocchi e profumi del palazzinaro di New York, tanto più che le sue invettive contro i musulmani hanno ricordato ai mormoni che, a fine Ottocento, i perseguitati dal governo federale e da folle xenofobe erano loro.

Tutto questo rimarrebbe una pura curiosità se non ci fosse la possibilità che, vincendo nello Utah, McMullin conquisti i sei voti elettorali di quello stato, il che potrebbe negare sia alla Clinton che a Trump quella maggioranza nel collegio elettorale che la Costituzione richiede per diventare presidente. Per esempio, potrebbe finire con Hillary a 269 voti, Trump a 263 e McMullin a quota 6.

Il totale fa 538 ma nessuno avrebbe la maggioranza assoluta.

Soluzione: in questo caso tocca alla Camera scegliere il presidente fra i tre candidati con più voti elettorali, quindi anche McMullin. Alla Camera si voterebbe però non «per testa» ma «per stato», quindi diventerebbe presidente chi ottenesse il maggior numero di voti delle delegazioni dei 50 stati, che sono in larga maggioranza controllate dai repubblicani. Dunque, potrebbe vincere Trump?

Improbabile. I deputati sono in maggioranza vicini allo speaker Paul Ryan, che vede Trump come un usurpatore e un pericolo, e ha colto fin qui ogni occasione per distanziarsi da lui. L’establishment salterebbe sull’occasione per votare un uomo del partito, ex della Cia, un tradizionale e affidabile repubblicano come McMullin. I democratici sarebbero fuori gioco ma comunque preferirebbero il diavolo a Trump. Naturalmente tutto questo è fantapolitica ma è possibile. E, come dicevamo, il 2016 è un anno in cui si sono viste sorprese anche maggiori nel voto dei cittadini, negli Usa e in Europa.