Oggi la giornata appartiene al 45mo presidente, Donald Trump. Ma prima di lasciargli la scena, Barack Obama ha preso la parola un ultima volta da dietro il leggio con lo stemma della Casa bianca.

LO HA FATTO tornando a vestire in parte i panni del consolatore, come nel precedente discorso di addio. Parole per i suoi  sostenitori, il popolo progressista che stenta ancora ad elaborare il lutto elettorale, e con buona ragione data l’aggressività con cui il nuovo governo sta muovendosi per rottamare l’eredità di Obama ed instaurare un  oligarchia reazionaria.

L’ultima performance è stata un inusitata conferenza stampa, un fuori programma quasi fuori tempo massimo, in cui l’ormai ex presidente ha volute delineare un testamento filosofico. «Alla fine penso che sopravviveremo anche a questo» ha detto in un intervento pieno di moniti non tanto velati al suo successore – a partire dal lungo preambolo  sull’importanza della stampa, chiaramente indirizzata al neo presidente che con «la stampa disonesta» è apertamente in guerra. Uno sperticato elogio, il suo, della tenacia con cui i giornalisti «ci hanno mantenuti onesti» concluso con l’auspicio che possano continuare a farlo «proprio da questa stanza». Un messaggio inequivocabilmente indirizzato al nuovo inquilino che ha dichiarato di voler smobilitare «il White House press corps» fuori dal recinto della Casa bianca.

COME MARCO ANTONIO al funerale di Cesare, Obama ha elogiato la successione politica pacifica, rispettando le differenze di vedute e ha difeso il diritto  dell’elettorato a farle valere. Ma mentre ha sostenuto l’alternanza, ha tenuto a precisare che esistono valori che dovrebbero esulare dai regolari flussi elettorali. Fra i «valori fondamentali» Obama ha enumerato la discriminazione istituzionalizzata, le restrizioni al diritto di voto, i tentativi di imbavagliare la stampa e le deportazioni sommarie. Quest’ultima è stata l’ennesima frecciata alla demagogica promessa trumpiana di schedare e deportare ognuno dei 12 milioni di clandestini presenti nel paese e precedentemente amnistiati da Obama. A questi si è riferito rivendicando – come per i diritti gay «l’orgoglio per le trasformazioni sociali» – cui ha presieduto durante il proprio mandato e da cui ha detto «non si può tornare indietro».

«RIDURRE INEGUAGLIANZE, razzsimi e discriminazione è stata la cifra della mia presidenza» ha detto. Il riformismo sociale è stato – se non un successo – un cardine della dottrina obamiana. Ma al di là della valutazione concrea del suo operato ciò che è emerso, anche per via del contrasto con la recente performance di Trump, è stato lo stile. Il  presidente uscente (che registra indici di gradimento attorno al  60% – 20 punti in più di quelli del caudillo entrante), si è esibito nell’ultima conferenza stampa «razionale».

PACATO, ELOQUENTE, Obama ha sfoggiato il consueto stile – «american cool» come l’ha chiamato qualcuno. Obama ha parlato di Cuba (stolto perseguire con l’isola politiche vecchie di mezzo secolo) di Israele (distruttivo e pericoloso abbandonare il progetto  di uno stato palestinese a favore dell’occupazione permanente) e voting rights (antidemocratico tentare di limitare il voto dell minoranze, estensione dell’antico segregazionismo). Ma è stata in fondo la forma ad incarnare la sostanza del suo intervento. Di fronte alla incipiente decostruzione populista del dialogo politico l’eloquenza misurata dell’ex presidente è stato un implicito commento sulla barbarie prossima ventura.

Un ultimo elogio della ragione prima di un eclissi che si preannuncia totale. Anacronistica forse, ma essenziale tuttavia dinnanzi alla imperante mistificazione populista. Ora largo al governo dei miliardari, dei banchieri Goldman Sachs e dei cinici attori che veicoleranno l’ondata viscerale del populismo. Che ne estrarranno ogni possibile vantaggio prima che i loro elettori possano scoprire la mastodontica truffa. «Good luck» ha concluso Barack Obama. Buona fortuna.