Insieme con l’indignazione, i fatti di Ferguson, nel Missouri, hanno suscitato domande che chiamano a qualche riflessione ulteriore. Se un poliziotto uccide un giovane nero – Michael Brown, diciotto anni – perché cammina in mezzo alla strada; se lo ammazza a sangue freddo; se lo lascia steso a terra, morto, in mezzo alla strada per più di quattro ore; se per giorni i suoi superiori tengono segreto il nome dell’agente che ha sparato e se gli stessi poliziotti fermano alcuni dei giornalisti presenti nei giorni della protesta, tutto questo vuol dire che in quei poliziotti è molto forte la convinzione della propria impunità.

Se poi questi fatti suscitano un’ondata di rabbia nella comunità dell’ucciso e i poliziotti che fronteggiano i dimostranti sono armati come i marine che hanno fatto la controguerriglia urbana in Iraq e Afghanistan vuol dire che la loro funzione nella società è vista – da loro stessi e da chi sta sopra di loro – come analoga a quella che i soldati hanno svolto per dieci anni in quelle guerre. Di fatto, tra l’altro, sono proprio le forze armate che vendono armi e attrezzature alle polizie: scarponi, tute mimetiche e giubbotti antiproiettile, elmetti, occhiali e maschere antigas, visori notturni ai raggi x, fucili da assalto, proiettili di gomma e di legno, mitragliatrici sul tetto di mezzi blindati – e almeno in un caso noto, un carro armato. Sono questi, insieme con i comportamenti sul terreno, i segni esteriori di quella militarizzazione di molte polizie locali, contro la quale lo stesso presidente Obama ha finalmente preso posizione.

Se infine è vero che in tutto il paese, come ha detto Melissa Harris-Perry nel suo programma televisivo su Msnbc, tra il 2006 e il 2012 almeno due cittadini afroamericani sono stati uccisi ogni settimana da poliziotti bianchi, allora l’episodio di Ferguson assume una valenza generale. Sull’esistenza di un doppio standard nei comportamenti della polizia (e del sistema giudiziario) a tutto svantaggio degli afroamericani esistono pochi dubbi.

L’elenco delle persone di ogni tipo uccise dalle forze dell’ordine per una qualsiasi ragione e in una qualsiasi situazione negli ultimi anni è impressionante, ma la prevalenza di neri tra gli uccisi e la loro presenza abnorme nelle carceri stanno a conferma della disparità di trattamento.

Le condizioni sociali entro cui la protesta è avvenuta a Ferguson sono emblematiche. Le tensioni razziali derivano dal fatto che la polizia è bianca al 98 per cento in una cittadina – che trent’anni fa era bianca all’85 per cento – in cui i neri sono ora in maggioranza (67 per cento) e da una situazione sociale resa estremamente difficile dalla disoccupazione, dal crollo dei redditi (pari a un terzo nell’ultima dozzina d’anni) e dal raddoppio dei poveri tra i residenti. Non vuol dire che altre «mille Ferguson» siano sul punto di esplodere, ha scritto Elizabeth Kneebone per la Brookings Institution, di sicuro però sono mille altri i luoghi in cui le condizioni di vita sono oggi altrettanto difficili, o anche peggiori.

Gli studi recenti sullo stato dei rapporti razziali negli Stati Uniti confermano che la composizione socio-razziale nelle aree metropolitane si è fatta sempre più mista, ma che la segregazione scolastica e abitativa cresce e l’estraneità sociale reciproca – soprattutto tra bianchi e neri – diminuisce molto lentamente. Il fatto che, come a Ferguson, in gran parte del paese il disagio sociale e la povertà sono aumentati in questi anni in modo drammatico, allargandosi dalle città ai suburbs, ha fatto crescere ovunque diffidenze e risentimenti tra i diversi gruppi.

Da molte parti è stata sottolineata l’impreparazione degli agenti che fanno servizio in strada a gestire le situazioni «difficili» o anche solo problematiche.
Che sia più semplice sparare lo dimostra l’altra uccisione avvenuta a St. Louis il 19 agosto, a poche miglia da Ferguson, dove la protesta si stava spegnendo. Il venticinquenne Kajieme Powell ruba due lattine di soda (che poi lascia sul bordo della strada) e una ciambella. Il negoziante chiama la polizia. Le persone presenti sul marciapiede lo deridono come un fuori di testa, come mostra il video acquisito e subito messo in rete dalle autorità. Arriva l’auto della polizia e Powell si avvicina a uno degli agenti, forse avendo in mano un coltello, e nel momento in cui supera la linea immaginaria dei 21 piedi (6,3 metri, oltre i quali un agente è intitolato a ritenersi in pericolo) gli agenti gli sparano nove volte, uccidendolo. Dall’arrivo dei poliziotti agli spari sono passati venti secondi.

Invece il 17 luglio a Staten Island, New York, due poliziotti hanno bloccato il corpulento, disarmato e inoffensivo Eric Garner (che vende sigarette di contrabbando in strada) prendendolo per il collo – con una mossa di lotta proibita dai regolamenti (chokehold) – lo hanno buttato a terra e immobilizzato, schiacciandogli la testa e il collo sul marciapiede, impedendogli di respirare e forse provocandogli un infarto letale.

Temendo l’esplosività delle condizioni sociali nelle maggiori aree metropolitane le gerarchie delle polizie locali, diversamente da Ferguson, sono intervenute tempestivamente per placare la rabbia delle loro comunità. A St. Louis non è successo niente. A New York, il sindaco De Blasio in prima persona ha condannato l’episodio e fatto le sue condoglianze alla moglie di Garner; la polizia ha avviato un’indagine interna e ha subito sospeso i due poliziotti.

Invece le proteste messe in moto nella piccola Ferguson dall’uccisione di Michael Brown e dall’arroganza del capo della polizia locale si sono prolungate per dieci giorni e hanno raggiunto i media di tutto il mondo. Nonostante abbiano avuto anche picchi violenti, non sono state neppure lontanamente estese e distruttive come la rivolta di Harlem del 1964, di Newark del 1967 o di Los Angeles del 1992, tutte innescate dalla violenza poliziesca contro cittadini afroamericani.

La valenza simbolica dei fatti di St.Louis, New York e soprattutto di Ferguson è stata ingigantita dalla copertura mediatica degli eventi e, infine, dei funerali di Michael Brown. Quegli eventi hanno anche innescato una discussione sulla posizione odierna della minoranza afroamericana nella società statunitense.

A chi ha messo in evidenza la discriminazione di classe contro i neri, tra loro Kareem Abdul-Jabbar con un inatteso intervento sul settimanale Time, altri, come Spike Lee, hanno contrapposto una lettura ripiegata sulla discriminazione razziale. Per altri ancora, come il reverendo Al Sharpton, organizzatore della manifestazione per Eric Garner e oratore principale ai funerali di Michael Brown, quei due fattori principali si intrecciano tra loro e con il ruolo di controllo e repressione svolto ovunque dalle forze di polizia. Nella sua omelia di Ferguson, Sharpton ha anche richiamato con forza gli afroamericani a un’assunzione più piena delle proprie responsabilità di cittadini, necessaria per dare forza maggiore alla propria domanda di giustizia.

Rimane tuttavia il fatto che, a cinquant’anni dalla storica legge sui diritti civili del luglio 1964, la società statunitense non ha ancora risolto il problema della discriminazione razziale. Si erano illusi quanti avevano sostenuto che l’elezione di un afroamericano alla Presidenza era il segno di una raggiunta «società post-razziale».

In realtà, la discriminazione razziale non ha smesso di accompagnarsi all’impoverimento delle famiglie afroamericane, che rimangono al fondo della piramide sociale con un reddito mediano in calo costante dal 2000 in poi e che oggi è pari a meno della metà di quello delle famiglie bianche.

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