«Rispetto a tutte le altre che l’hanno preceduta, questa è una generazione di giovani che ha conoscenze, competenze e un concetto di globalità del tutto inedito. È la prima generazione totalmente proiettata oltre i confini». Per il direttore del Censis Massimiliano Valeri i risultati della ricerca condotta dalla Fondazione Migrantes debbono essere letti positivamente. «Il problema non sono i giovani che vanno via dall’Italia, ma il fatto che rispetto ad altri paesi l’Italia non è altrettanto attrattiva per i giovani stranieri. La fuga di cervelli è solo uno slogan mediatico. Che un numero sempre più consistente di giovani vada a studiare o a lavorare all’estero è un fatto di per sé positivo».

Non diventa però un problema se all’estero ci si va perché da noi manca la possibilità di fare il lavoro per cui hanno studiato? Insomma va bene se la fuga è una scelta, non se diventa una necessità.
Naturalmente noi abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile elevatissimo, però è anche vero che uno va a vedere il numero degli iscritti all’Aire (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, ndr) i numeri più consistenti di flussi si attivano da due regioni dove le opportunità occupazionali sono maggiori, cioè la Lombardia e il Veneto. Voglio dire che in molti casi non si tratta di una necessità ma di un’opportunità che i giovani sanno cogliere. Il problema dei giovani in Italia è il fatto che hanno una scarsa incidenza politica e di rappresentazione che deriva da un motivo strutturale: sono pochi. Dagli anni 70 in poi abbiamo avuto una drastica riduzione delle nascite – fino a toccare lo scorso anno il minimo storico dall’unità d’Italia oggi, con appena 486 mila bambini nati. Oggi i giovani tra i 18 e i 34 anni sono 11 milioni, su un corpo elettorale che è fatto di 50 milioni di potenziali elettori. Non hanno nessuna possibiltà di incidere, motivo per il quale la politica è molto più orientata sulle pensioni piuttosto che su interventi mirati a migliorare le condizioni dei giovani.

Più in generale i giovani italiani sono maggiormente svantaggiati rispetto ai coetanei di altri paesi?
In Italia c’è un tasso di disoccupazione giovanile che non ha riscontri in altri paesi, difficili condizioni abitative, un’offerta universitaria che può essere d’eccellenza dal punto di vista formativo ma non altrettanto dal punto di vista dei servizi. Siamo sempre più un paese a misura di anziano. Per cui i giovani fanno da soli, grazie al web e alle loro competenze digitali sono per definizione nomadi, andare oltre confine per loro non è assolutamente uno scoglio insormontabile. E poi c’è da considerare l’altro fenomeno, quello dei ’ritornanti’. Bisogna sempre fare il bilancio di quanti dei giovani che trascorrono qualche anno all’estero poi rientrano in Italia.

Non è un paradosso dire da una parte che emigrare è normale e dall’altra assistere a un’Europa che si barrica sempre di più? Mi riferisco alla Gran Bretagna che esce dall’Unione europea, ma anche al referendum che si è tenuto in Svizzera.
Viviamo una stagione politica paradossale in cui hanno più forza le scelte emotive piuttosto che gli argomenti della ragione. L’esito del referendum sulla Brexit, in cui si è visto come a votare siano state prevalentemente le persone più anziane, è un’ulteriore conferma che i giovani hanno una minore incidenza politica rispetto al passato. Negli anni del boom economico i giovani con meno di 35 anni erano il 57 per cento degli italiani, mentre oggi sono il 35 per cento. Da qui ci si può rendere conto di quanto un fattore demografico abbia incidenza su tutti gli altri aspetti sociali, economici e politici. La stessa uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea è una conseguenza di questo: il voto delle persone più avanti con l’età ha pesato sul destino e sui progetti dei giovani. Una contraddizione in termini. Che un anziano determini il destino di un giovane è un fatto paradossale. Purtroppo, però, questa è la stagione politica che stiamo vivendo.