Si vota oggi nelle primarie dell’Empire State. Per una volta i risultati di New York incideranno sull’esito della nomination presidenziale assegnando delegati cruciali (95 repubblicani e 291 democratici) ai candidati in corsa per la nomination. Gli ultimi sondaggi confermano l’ampio vantaggio di Donald Trump su Ted Cruz e John Kasich. Il miliardario che «gioca in casa» si aggiudicherà oltre il 50% dei consensi fra i repubblicani contro il 20% a testa circa per gli avversari: il governatore moderato dell’Ohio (Kasich) e Cruz l’integralista reazionario del Texas che in passato ha criticato i «valori di New York» come esemplari della perniciosa decadenza morale che si diffonde dalle città cosmopolite. In campo democratico il passaggio a New York ha ulteriormente rinvigorito la campagna «insorgente» di Bernie Sanders che domenica ha nuovamente raccolto 30.000 persone al comizio di Prospect Park a Brooklyn.

Lo storico quartiere multietnico dove Sanders è nato 74 anni fa, oggi «gentrificato» e abitato da una folta popolazione di giovani istruiti è diventato fronte simbolico dello scontro con Hillary Clinton. A Brooklyn si è tenuto l’ultimo pubblico confronto fra i due, un dibattito aspro che ha evidenziato una spaccatura più profonda del previsto fra due anime del partito: il pragmatismo moderato di Hillary e l’idealismo progressista di Bernie. Con l«endorsement» simbolicamente incassato in Vaticano e le grandi folle radunate nei punti strategici della città, Sanders ha incalzato Hillary con la critica strutturale sui finanziamenti alla politica Usa alla «economia immorale» di cui la Clinton è una storica fautrice. Manco a farlo apposta, sabato l’ex segretario di stato ha fatto un pausa californiana per assistere ad un fundraiser hollywoodiano presieduto da George ed Amal Clooney (con la partecipazione di Steven Spielberg e Jeffrey Katzemberg).

Fuori dalla villa un gruppo di sostenitori di Bernie l’ha aspettata per gettare banconote al passaggio della sua «motorcade». Oltre alla «questione morale» le critiche mosse da Sanders alla rivale sono divenute più specifiche su un tema cruciale e tabu della politica americana. Nella scorsa settimana Sanders ha ribadito che Israele «non può semplicemente espandere quando vuole i propri insediamenti. Per la pace gli Stati uniti devono dialogare anche col popolo palestinese». Una divergenza radicale che consolida la base liberal del senatore (ebreo) ma che quasi certamente solidifica anche il sostegno della tradizionale lobby pro-israeliana per Hillary.

I sondaggi prevedono oggi un vantaggio per quest’ultima attorno a 53%-43%, utile per mantenere il distacco nella conta dei delegati che ad oggi vede Hillary davanti a Sanders per 1.307 a 1.087. Trump intanto precede Cruz per 742 a 529, ma in entrambi i casi i numeri stentano a riflettere le dinamiche di una gara anomala. È praticamente assicurato che nessuno dei candidati repubblicani riuscirà ad raggiungere i 1.237 delegati necessari prima di giugno. La nomination dovrà quindi venire assegnata nella convention di luglio dove si prospetta una potenziale clamorosa rottura all’interno del partito.

In casa democratica tutto sembra indicare che malgrado la drammatica rimonta di Sanders, Hillary riuscirà alla fine a raggiungere i 2.383 delegati utili alla nomination democratica. Solo però grazie ai cosiddetti «super delegates», quadri di partito con facoltà di voto indipendente dalle urne.
La campagna di Sanders ha cominciato ad esercitare pressione su questi 712 individui giungendo a pubblicare i loro nomi e contatti. In entrambi i casi il voto dei cittadini si sta rivelando una formalità. La decisione definitiva avverrà con la mediazione politica di partiti che attraversano una crisi storica. Quello repubblicano, allo sbando, ha perso il controllo su un base divisa e sempre più suscettibile a seduzioni populiste. I democratici con meccanismi più solidi per favorire la candidata dell’establishment, rischiano comunque un destino simile se non sapranno accogliere le istanze di uno sfidante che ha dimostrato di saper incarnare la fondamentale disaffezione della sinistra.