Compie quindici anni Primavera dei teatri, ma la festa di compleanno non è solo della manifestazione calabrese, quanto dell’intero teatro italiano, che ogni anno a Castrovillari, alle falde del Pollino riunisce buona parte del teatro prossimo venturo. Ci sono anche nomi affermati e rinomati, ovviamente, ma risulta sempre meritorio per Scena Verticale, la compagnia organizzatrice, un fitto lavoro di scouting nei mesi precedenti alla ricerca di cosa c’è di nuovo o di interessante o di curioso, nel panorama del teatro italiano. Con un occhio particolare non solo all’età anagrafica dei teatranti «sotto osservazione», ma soprattutto alla loro originale «meridionalità», perché il sud culturale del paese riacquista qui una centralità che non possiede altrove.

Moltissimi quindi gli ospiti che si sono succeduti nelle sale del Protoconvento francescano ai piedi del paese: per i più noti come per quelli misconosciuti, il pubblico non si è tirato indietro, e spesso è stato registrato in sala il tutto esaurito. A testimonianza che il lavoro, anche durissimo, di questi anni, ha dato i suoi frutti nella nascita e nello sviluppo di un pubblico nuovo, vasto serbatoio del quale è costituito dall’università di Cosenza.

Molti degli spettacoli visti, pur ricchi di elementi apprezzabili, mostrano ancora una sorta di incompletezza «laboratoriale», come di un percorso narrativo che ha bisogno, di una ulteriore messa a punto. È il caso di uno degli spettacoli più attesi, quel Pitùr che costituisce il secondo momento della ricerca che Mario Perrotta va conducendo attorno a Antonio Ligabue e la sua pittura. L’anno scorso tutti erano rimasti catturati dal primo episodio, se così si può definire, Un bès, che pur nella forma di monologo dava alla storia del grande artista naïf toni di grande affettività, per quanto crudele. Questa volta invece a fianco allo stesso Perrotta sono parecchi i corpi in palcoscenico. Tutti vestiti di sottanoni chiari, che da un lato evocano la istituzione manicomiale, e nello stesso tempo si fanno schermo per le belle immagini proiettate.

Ma la realtà psichiatrica prebasagliana finisce col «distrarre« dalla tragicità profonda di quella pittura, benché non manchino momenti di grandissima forza teatrale, come il canto d’amore feroce che tutti intonano sull’aria di una vecchia canzone delle mondine. Ora si aspetta la conclusione, col terzo episodio ambientato nella natìa Gualtieri, che porrà compimento a una grande saga, un grande spettacolo su un artista ingiustamente rimosso, che Perrotta è riuscito a recuperare e riproporre con il linguaggio di oggi.

Uno spettacolo di ampi e nobili intenti è quello presentato dalla stessa Scena Verticale, a capo della quale a fianco al carisma d’attore e d’autore di Saverio La Ruina, sta l’altro titolare della fondazione, Dario De Luca. Che torna alla forma del teatro canzone, duettando attraverso il proprio monologo con la partitura di Giuseppe Vicenzi. De Luca riconferma le proprie qualità di attore e di interprete, ma deve sostenere una impari lotta con le tematiche affrontate, per quanto catastrofiche: un paese allo sbando, la sottocultura dilagante, la televisizzazione di ogni rapporto, come Il grande fratello obbliga. Il suo Va’ pensiero… rischia di suonare perdente in un accerchiamento mediologico senza limiti.

Chi vorrebbe mostrare maggior ottimismo è l’esperienza shakespeariana dei giovani attori di Punta Corsara, l’iniziativa nata dai laboratori di Scampia e ormai autonoma nella propria vita artistica. Emanuele Valenti in Hamlet travestie traduce (o meglio traveste letteralmente) l’infelice famiglia reale di Danimarca, prototipo di ogni teatralità, in una odierna famigliaccia da vascio napoletano. Il salto dalla tragedia alla farsa non è indolore: si ride, si applaude e si apprezza la pungente corrispondenza, ma proprio la farsa è un genere difficilissimo oggi, nell’assenza quasi totale di un contraltare «serio». L’entusiasmo sopperisce alle carenze drammaturgiche, e si finisce con l’apprezzare quella inesauribile carica (e desiderio) di risata che viene dal profondo. Non meno impegnativo, nell’assunto e nelle finalità, lo spettacolo che ha concluso la rassegna. Thanks for vaselina è un titolo che ha quasi un anno di vita. Gabriele De Luca e Massimiliano Setti col loro gruppo Carrozzeria Orfeo, possono vantare un certo successo ottenuto. Anche qui, con i modi dello spettacolo popolare e della telenovela aggressiva, si ipotizza un vero paradosso: la possibilità di rispondere alla pioggia di droghe in arrivo dagli Usa, con spedizioni massicce di marijuana affettuosamente coltivata in piccole serre domestiche, verso la patria dei narcos. Ma quei trionfi vegetali, servono soprattutto a raccontare l’emarginazione nostrana, in periferie degradate, famiglie sfasciate, sessualità transumanti, diversità da fumetto, e alla fine nella richiesta impellente (quasi una rivendicazione) di buoni sentimenti mancanti. Per arrivare a questo, si sfoglia tutto il catalogo delle trasgressioni sociali e verbali, senza che si coaguli però un vero cuore drammatico a tutta la vicenda, quasi che prevalga la sola voglia di scandalizzare. Si ride ma senza riuscire ad appassionarsi.

Grande passione invece suscita una piccola opera dei Sacchi di sabbia, che presentano un pugno di allegorie e metafore della vita di oggi, formalizzati e cantati però nelle forme degli antichi Maggi toscani, in ottava rima e in quartine di ottonari. Tecniche fantasmagoriche (la rumorista e gli assoli di canto), e citazioni da fumetti e cartoon (ma perfino da Tati) per scolpirci attraverso l’udito tutti gli orrori di oggi: questi Piccoli suicidi in ottava rima non rinunciano al divertimento sfrenato, ma nello stesso tempo gli danno la cornice per tentare, rispetto a quegli orrori, di prenderne davvero le distanze. Nella sua sobrietà e modestia, un piccolo capolavoro.