Trent’anni or sono, il 10 febbraio del 1986, nell’aula bunker del tribunale di Palermo si apriva il maxiprocesso alla mafia che si sarebbe poi concluso il 30 gennaio 1992 con la sentenza definitiva della Cassazione. Quell’evento si percepiva come un punto di non ritorno nella lotta alla mafia, almeno sul piano giudiziario, e lo era davvero perché dimostrava che non si era in presenza di una sorta di «spectre» inafferrabile con la quale era impossibile fare i conti: cadeva un mito e, infatti, da allora in poi, pur con alti e bassi, Cosa nostra ha subito una notevole repressione che l’ha resa vulnerabile e l’ha senza dubbio indebolita, specie nella sua ala militare. Non si può dire che lo Stato abbia vinto, ma è certo che, sempre sul piano giudiziario, l’azione di contrasto da allora è continuata e tuttora continua.

Come Cristoforo Colombo con il suo uovo, Giovanni Falcone aveva dimostrato che volendo si poteva rendere possibile ciò che sembrava impossibile e da allora l’apparato giudiziario non ha avuto più alibi e si è comportato di conseguenza. Si è riusciti così ad incidere profondamente sulle strategie della mafia, specialmente su quella omicidiaria, cosa non di poco conto se si pensa al migliaio di morti avutisi fino alle stragi del ’92 e ’93.

L’illusione giudiziaria

Va ricordato che in quel tempo, nelle tante interviste o nei tanti convegni, noi che di quel processo ci eravamo occupati, avevamo sempre messo in guardia di non cadere nella «illusione giudiziaria» perché da sola la giurisdizione non poteva farcela e quel monito rimane tuttora attuale e valido. Se però la mafia, seppure assediata, non è scomparsa e, anzi, gode di una buona salute economica, dobbiamo chiederci cosa ha fatto da allora in poi lo Stato o cosa non ha fatto per adeguare gli strumenti di contrasto alle mutate strategie mafiose e porre anche la stessa domanda alla nostra società nel suo complesso, agli imprenditori, al mondo della finanza, ai mezzi di comunicazione e ad altri ancora, rossi o neri che siano.

Lo Stato (o la politica o in definitiva le classi dominanti) dai primordi ha ricompreso le mafie nel proprio sistema di potere, dal passato remoto dell’inchiesta di Sonnino e Franchetti al nostro ieri con l’era berlusconiana: una borghesia mafiosa funzionale al sistema, con la quale si poteva ben convivere. Quando però il limite di indignazione nazionale diventava intollerabile e per alcuni episodi criminali eclatanti non si poteva far finta di nulla, allora doveva reagire. Così dopo la strage di Ciaculli viene istituita la commissione parlamentare antimafia, dopo l’omicidio del generale Dalla Chiesa viene varata la legge Rognoni-La Torre, dopo uno svarione della Cassazione che scarcera inopinatamente molti mafiosi è lo stesso Andreotti a rispedirli in carcere con un decreto legge e, ancora, sarà proprio il governo Berlusconi a stabilizzare la norma sul 41 bis.

La repressione giudiziaria, innescata proficuamente dalla legge Rognoni-La Torre, e l’introduzione del reato di associazione mafiosa del 416 bis, con il corollario della confisca dei beni di illecita provenienza via via reso più duro con le pronunce della cassazione e modifiche legislative, la cattura e la condanna all’ergastolo di quasi tutti i capi di Cosa nostra e la sottrazione di ingenti patrimoni, hanno incrinano il potere di quell’organizzazione che abbiamo conosciuto fino all’arresto di Riina e Provenzano. Lo scontro armato con lo Stato non ha pagato, sono morte le illusioni di ottenere con le bombe, anche da un governo di centrodestra, riforme legislative sulla revisione dei processi o sul 41bis ed è chiaro che ad ogni eventuale nuova prova di forza seguirà un’altra ondata repressiva.

Un connubio in crisi

Come nei giochi dei bambini, specie nella stagione berlusconiana, si è levato chiaro l’avviso: «Chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori» e infatti da un lato, per chi è dentro, si è stabilizzato il 41 bis e si sono rese più efficaci le misure di prevenzione patrimoniali e dall’altro, per chi è fuori, sono arrivati i condoni, le sanatorie edilizie, la quasi abrogazione del falso in bilancio, l’abbreviazione della prescrizione, un rapido dietrofront sui primi provvedimenti di controllo fiscale messi in atto dal governo Prodi ed altro ancora.

La mafia però resiste, in particolar modo con il controllo del territorio, gli stupefacenti, le estorsioni e, soprattutto, con le tradizionali connessioni con la finanza e l’imprenditoria: il sodalizio con il mondo dell’economia reale e degli affari, a lungo ignorato, perché troppo impegnate, magistratura, stampa e società civile, a seguire le piste che avrebbero dovuto portare a svelare il connubio tra mafia e politica. Quel connubio è ridotto al lumicino perché non più utile per i mafiosi e pericoloso per i politici: ai primi perché serve di più l’apporto degli imprenditori e degli apparati amministrativi degli enti locali, ai secondi perché una contiguità giudiziariamente accertata con la mafia risulta ormai sempre disastrosa, come dimostrano le storie di Cuffaro e Dell’Utri.

I gruppi mafiosi possono anche mobilitarsi per eleggere dei consiglieri comunali, ma penso che oggi non si possa più ipotizzare una mobilitazione organizzata della mafia su base regionale o nazionale a favore di una parte politica. Basta pensare allo sfascio dell’assemblea regionale siciliana, con i partiti divisi in decine di sottogruppi in lotta tra di loro, con cambi di casacca continui e con una giunta che in pochi anni ha visto il susseguirsi di una cinquantina di assessori. In questo caos la mafia non saprebbe proprio su quali referenti puntare: certo, poi i mafiosi votano, ma non è detto che votino sempre a destra.

La corruzione marchio di fabbrica

Rimane il grande problema della mafia e delle sue potenzialità, specie economiche, nel nostro tempo, che però non si può separare dal contesto nazionale. In questo contesto la mafia è realmente, come nel passato, un problema nazionale, intrecciato alla economia, alla conseguente illegalità diffusa e pervasiva e, in definitiva, alla tenuta democratica dell’intero sistema e comunque senza esagerare con bufale mediatiche secondo le quali sarebbe in grado di condizionale la Borsa o l’intera economia del paese. Le cronache giudiziarie di questi ultimi anni ci dicono che, intrecciati costantemente con prassi corruttive, non c’è una grande o piccola opera, non c’è appalto o concessione di servizi pubblici nei quali non sia presente un gruppo mafioso: dallo smaltimento dei rifiuti, all’accoglienza ai migranti, alla distruzione del territorio o alla sua bonifica e ciò in collusione con l’imprenditoria, con organi amministrativi e con tutta quell’area grigia che l’aiuta nell’investimento e nel riciclaggio dei proventi illeciti. Qui il problema però non è solo la mafia, ma il «sistema paese» nel suo complesso con la corruzione generalizzata che accomuna tutti, mafiosi, economia e mondo politico. Se non si combatte a fondo la corruzione, l’evasione fiscale, la distruzione del territorio, il riciclaggio e tutti gli altri noti mali del paese, non si combatte efficacemente nemmeno la mafia.

Gli strumenti legislativi per combattere la sola mafia sono più che sufficienti e sono un modello ammirato e seguito in tanti altri paesi. Ci rimane, segno distintivo nazionale, la corruzione e per arginarla almeno in parte, basterebbe tra l’altro fermare i termini di prescrizione, come tutta la magistratura invoca da anni: peccato che vi si opponga una componente della maggioranza di governo, con il ministro dell’interno in testa.

L’esercito dell’antimafia

Nel contrasto alla mafia entrano in gioco anche la mitica società civile e il variegato mondo della comunicazione. Il recente coinvolgimento di alcuni magistrati nell’inchiesta sulla disinvolta gestione dei beni confiscati alla mafia ha fatto emergere un confuso intreccio tra i portatori di una antimafia genuina e gli interessi illeciti di sedicenti antimafiosi. In Sicilia le stragi del ’92 e ’93 hanno fatto crescere una diffusa coscienza antimafia, con associazioni e movimenti tesi ad attuare lo spirito della legge sull’uso sociale dei beni confiscati. È però cresciuta a dismisura, anche a causa di una falsa ondata di retorica antimafiosa alimentata da molta stampa acritica, la corsa ad arruolarsi nell’esercito dell’antimafia di personaggi e associazioni che nulla avevano e hanno a che fare con l’antimafia e che vi si sono intruppati sulla base di una facile autocertificazione di antimafiosità: se non si ha il coraggio di disboscare questa selva di arrivisti e affaristi, l’antimafia non recupererà una sua credibilità che oggi è scesa molto in basso.

Torniamo al palazzo di giustizia da cui eravamo partiti e alla magistratura che con il maxiprocesso aveva ritrovato gran parte della fiducia dei cittadini. Oggi vi si sta svolgendo il grande processo sulla «trattativa», al cui esito rimane appesa, molto più del processo Andreotti, la credibilità della magistratura nel portare a giudizio pezzi di storia istituzionale del paese. Il rapporto tra magistratura e politica è oggi fondato sulla reciproca delegittimazione e questo è il male oscuro che li indebolisce entrambi, che indebolisce il sistema democratico e, in definitiva, anche la lotta alla mafia. La politica non l’ha ancora compreso in pieno e prova ne sono le periodiche bordate renziane, in parte attutite dall’azione «pacificatrice» del ministro Orlando. Anche la magistratura però deve fare la sua parte, non disegnando scenari politici da perseguire ma esercitando con rigore garantista le sue funzioni. Credo che su questo versante, e non lo dico per piaggeria corporativa, l’Associazione nazionale magistrati stia dando un contributo notevole. Auguriamoci che tutto vada per il meglio.