«Lavoratori, faticatori, l’Islam è per voi», «il nostro partito è quello di Allah, il nostro leader è Ruhollah »: così la religione faceva il suo ingresso nelle fabbriche iraniane.

Era la metà del 1979, la narrazione khomeinista si appropriava definitivamente della rivoluzione. L’Islam sciita diventava il collettore della rivolta contro lo Shah, ovvero di quella sollevazione popolare prettamente urbana, che era partita dalle città nel 1978 e si era propagata dalle università ai bazaar, fino alle fabbriche.

Mettendo sotto il suo ombrello le diverse anime politiche e sociali del corpo rivoluzionario, l’Islam fagocitava i simboli e gli slogan marxisti: in parte li assimilava, per annullarli. Nelle industrie comparivano i poster del Partito islamico repubblicano (Hezb-e Jomhuri-ye Islami): catene spezzate, pugni chiusi e ingranaggi – tipici dell’immaginario realista – si mescolavano a fiori e versi coranici (riconoscibili per lo stile calligrafico arabo naksh). C’erano anche frasi dell’imam Khomeini in farsi: «Il lavoro è una manifestazione di Dio», oppure «l’Islam è l’unico sostenitore del lavoratore». Il concetto di lavoro veniva, dunque, inglobato in toto nella sfera religiosa, all’interno della neo proclamata Repubblica islamica dell’Iran. Il lavoratore (kargar) era incorporato nell’ampia categoria dei mustaz’afin, gli oppressi, in nome dei quali era scoppiata la rivoluzione e nei quali i khomeinisti trovavano legittimazione al loro potere.

I mustaz’afin erano considerati «schiavi di Dio», come tutti i musulmani. La classe operaia (tabaneh-e kargar), dunque, non era più un’entità collettiva e politica specifica, ma spariva tra gli oppressi. Se «il dovere del governo è fornire i mezzi di produzione per i lavoratori», diceva Khomeini a Radio Teheran nel marzo del 1980, il lavoro si trasformava in un «dovere religioso». Gli operai dovevano produrre per la Repubblica islamica, specialmente durante gli anni della crisi e della guerra con l’Iraq.

Attraverso questo processo di trasformazione, la fabbrica assumeva un ruolo pubblico fondamentale. Molto di più di un normale posto di lavoro. Come ha scritto lo studioso Asef Bayat, diventava per la Repubblica islamica una «barricata» dei lavoratori contro gli infedeli, i koffar. In altre parole mutava in un immaginario (e islamizzato) campo di lotta. Il braccio d’intervento dei khomeinisti nelle industrie erano le Associazioni islamiche, nate ufficialmente a scopo sociale ed educativo per sostituire i laici consigli dei lavoratori (shura), smantellati già nel 1981. Le associazioni distribuivano manifesti, monitoravano le assemblee e tenevano sotto controllo eventuali «controrivoluzionari».

Nella propaganda di Khomeini l’urgenza era isolare coloro che erano percepiti come «nemici», ovvero la sinistra e l’Occidente: «Miei cari lavoratori, dovete sapere che quelli che ogni giorno creano scompiglio in un angolo del Paese sono vostri acerrimi nemici che vogliono portarvi via dal sentiero della rivoluzione. Sono dittatori che se mai salissero al potere non permetterebbero a nessuno di respirare. Dovete identificarli pubblicamente come il vostro nemico numero uno, rivelare il loro legame e dipendenza dall’aggressivo Oriente o dal colonialista Occidente». La strategia prevedeva l’uso delle categorie marxiste per annientare la minaccia alla Repubblica: «L’Islam eliminerà le differenze di classe», «l’Islam è per l’uguaglianza e la giustizia sociale».

Perché il potere regga – sosteneva il filosofo francese Michel Foucault – non può solo imporre e reprimere. Deve creare «regimi di verità», costruire nuovi campi di conoscenza, fare circolare delle narrazioni condivise a più livelli della società. E, già in piena rivoluzione, la potenza della propaganda khomeinista nelle fabbriche è proprio quella di produrre nuove realtà. Se fino al giugno 1978, infatti, i lavoratori si erano tenuti alla larga dalle proteste (ad eccezione della città di Tabriz), durante l’estate di quell’anno decidevano di scendere in piazza.

Lo Shah aveva cancellato i bonus annuali e gli scatti dei salari erano stati bloccati. A settembre cori come «lunga vita ai lavoratori» si mischiavano a slogan pro-Khomeini: «Toglierà il potere ai ricchi e lo darà a noi». Ma dopo un iniziale periodo di vuoto di potere, il controllo dal basso nelle fabbriche è rimasto solo un’illusione. Oggi, a 37 anni dalla rivoluzione e a 27 dalla morte di Khomeini, in Iran le moschee sono poco frequentate e lo spazio per il dissenso è praticamente scomparso.