Sulla scia delle sollecitazioni scaturite dall’articolo di Giorgio Lunghini (il manifesto, 14 settembre), denso di indirizzi e valutazioni, sarebbe interessante riprendere alcune considerazioni sullo sviluppo della produttività del lavoro e sul cambiamento tecnologico.

Questa produttività viene misurata in termini di ore lavorate per unità di Pil prodotto. Un miglioramento di questo risultato, secondo Confindustria, si ottiene attraverso la politica dell’offerta; una offerta che andrebbe finanziata dal pubblico dal momento che il capitale privato – ma questo Confindustria non lo dice – in assenza di una domanda non è nelle condizioni per affrontare i rischi di un investimento.

Alla successiva domanda su come trovare le conseguenti risorse finanziarie, Lunghini non si sottrae e indica la necessità di un governo che sappia rispettare l’art. 53 della nostra attuale Costituzione, l’articolo che afferma che «tutti sono tenuti a concorrere …».

Continuando nel “gioco” di Lunghini si potrebbe opinare sugli esiti di questa pur immaginaria operazione, non tanto perché quel governo non è esistito e non esiste, quanto piuttosto per il fatto che queste risorse finanziarie in mano all’attuale sistema industriale farebbero la fine di quelle precedenti e che ci hanno portato a questa negativa situazione competitiva.

È vero che sarebbe giusto valutare anche la questioni sollevate da Keynes sin dagli anni Trenta del secolo scorso, come ricorda Lunghini in materia di disoccupazione tecnologica, ma per ora l’Italia è attraversata da una disoccupazione di origine ben diversa, cioè da una disoccupazione per bassa competitività e, quindi, da ritardo tecnologico. Un ritardo che abbiamo accumulato per il semplice motivo che non si è allevata le capacità in materia di sviluppo tecnologico da parte del sistema delle imprese. Una politica adottata, peraltro, anche dal governo nei confronti degli investimenti pubblici in R&S, tant’è che anche in questo campo siamo in coda, anzi consideriamo questi capitoli di spesa pubblica come dei punti privilegiati della politica dei tagli. Questo non ci sottrae certo dagli effetti dell’altra modificazione strutturale internazionale, cioè quella dell’allargamento dei confini degli scambi economici; siamo, in definitiva, soggetti alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo.

Occorre stare attenti alla scelta delle tecniche di produzione, che in mano ai proprietari delle macchine non garantiscono un «ritorno coerente con le esigenze anche di chi le opera e del Paese». Il nostro preoccupante orizzonte non è, tuttavia, solo quello offerto attualmente dai paesi in via di sviluppo, piuttosto quello delle prospettive di vita e delle condizioni occupazionali – quali e quantitative – dei paesi con i quali dobbiamo misurarci.

Se, invece, volessimo affrontare una prospettiva diversa, l’intervento dello Stato dovrebbe cambiare profondamente incominciando a chiamare in causa, oltre a certe imprese, anche e prioritariamente gli attori del cambiamento tecnologico, incominciando dall’Università e dagli Enti Pubblici di Ricerca, dai Centro Studi, da specifiche strutture finanziarie pubbliche, ecc. Si potrebbe cosi affrontare anche la questione centrale, giustamente segnalata da Lunghini, cioè di come determiniamo, attraverso le nuove tecnologie, «il miglioramento delle condizioni di vita dell’intera società». La programmabilità dell’innovazione tecnologica è già una realtà, ma rimane al di fuori della logica dei quei miglioramenti indicati da Lunghini.

Se si arrivasse a questo punto di svolta politica, allora sarebbe necessario recuperare la ricetta di Lunghini in materia di individuazione delle specifiche fonti finanziarie e incominciare a costruire una nuova stagione della programmazione, in questo caso della programmazione di uno sviluppo attento alle esigenze di tutti gli attori.