Lo notavamo l’anno passato, da anatroccolo di Cannes, l’ACID ha cominciato ad ritagliarsi un posto accanto ai cigni, con alcuni giovani autori, soprattutto francesi – Virgil Vernier, Benoit Forgeard, Anna Roussillon – che avrebbero tranquillamente potuto figurare nella selezione della Quinzaine. L’editoriale di quest’anno assume il nuovo ruolo. Il titolo è lacaniano: «Les mots qui fâchent», alla lettera: le parole/i mali che infastidiscono. Quali sono queste male parole (del cinema francese attuale) che irritano l’Associazione del cinema indipendente? Sorpresa, sono quelle che di solito descrivono proprio i film che l’ACID seleziona e difende : la «diversità» e la «fragilità». Per lungo tempo l’ACID ha rivendicato con orgoglio, ma anche con un certo vittimismo, la propria «acidità». Oggi dice: i nostri film non sono né diversi né fragili. Sono film come gli altri. I nove selezionati quest’anno sono in effetti il segno di una scelta ampia, che cerca di mostrare la forza e la varietà della produzione indipendente. Ci riesce ? Sì e no.

Prendiamone tre, in crescendo. Il primo è Park di Damien Manivel. La giornata di una coppia di adolescenti in un parco di provincia comincia in maniera timida e ordinaria. Nella prima parte il film sembra divertirsi a portare la propria coppia a passeggio attraverso la media borghesia di provincia, tra la gente che si suol dire «per bene». Ma non è che la premessa di un racconto che ad un certo punto prende una svolta sfacciatamente lynchana. La notte cala, il paesaggio da cartolina si oscura, le inibizioni vanno in vacanza, entriamo in un mondo selvaggio, una sorta di twin peaks transalpino, dove a fare la parte del capellone Bob che importuna le adolescenti c’è un uomo, letteralmente, nero, un po’ come nelle fiabe di un tempo e nelle odierne ossessioni del Front National.

Tombé du ciel, del Libanese Wissen Charak è una satira del libano contemporaneo che ci è sembrata intelligente e precisa. Scomparso da vent’anni, un ex combattente della guerra civile riappare improvvisamente al fratello minore, e leggermente minorato, che lo credeva morto e che nel frattempo è diventato body guard. Sniper, così si chiama l’ex soldato, dovrebbe essere accolto come un eroe. Invece tutti lo guardano con sospetto. Dovunque vada: in una discoteca, in un salone di automobili (o di pedicure), persino quando è a casa con il padre, la sua presenza risulta ingombrante. Tutti sembrano voler vivere in accordo con i valori del passato, che lui incarna. Ma proprio per questo, Sniper è come la cartina al tornasole della perversione e dell’isteria che caratterizza gli altri: la virilità trasformata in machismo, la storia in idolatria, la libertà in consumo. Sniper è più una funzione che un personaggio. Con lui, il film si diverte a fare il tiro al bersaglio delle ideologie. L’idea funziona. Ma resta un’idea. Il film la esegue con rigore e precisione formali ammirevoli, ma a tratti stucchevoli.

Ci è piaciuto di più il film meno controllato ma più intenso dei tre: Voyage au Groenland di Sebastien Betbeder. Thomas e Thomas sono due «intermittenti dello spettacolo». Abitano a Parigi, vivono di comparsate nel cinema e di ruoli minori a teatro. Qualche anno fa, hanno accolto due cacciatori di foche groenlandesi. E l’avventura di questi moderni Usbek e Rica, osservatori esterni della civiltà francese, era l’oggetto di un film a metà tra la fiction e il documentario, Inupiluk. Con Voyage, i parigini ricambiano la visita, calandosi a loro volta nei panni dei «persiani» di Montesquieu. Si tratta anche per questo seguito di un film impuro. Girato come una sorta di giornale di viaggio. Chiaramente messo in scena. Ma largamente improvvisato. E sono senza dubbio le parti migliori quelle in cui la situazione si impone sul canovaccio creando dei momenti di grande comicità, che sono anche i più veri.

Una delle scene più emozionanti è quella in cui tutta la comunità del villaggio Inupiluk si raccoglie intorno ai due eroi i quali, surfando sulla connessione esitante di un vecchio modem cercano e, dopo mille sospiri, riescono a riempire la dichiarazione on line delle ore lavorate che danno diritto allo statuto (e agli ammortizzatori) di intermittenti dello spettacolo. Cosa capiscono gli Inupiluk del sistema degli intermittenti dello spettacolo? Nulla ovviamente. Ma intuiscono che la registrazione on line è come la preda per il cacciatore di foche, perderla è una questione di vita o di morte…
Alla fine dei conti, che dire dell’ACID 2016 ? Forse i film non sono poi così diversi dalle altre edizioni. Molti restano, se non acidi, acerbi. Ma era tempo che il discorso che li accompagna si liberasse da ogni vittimismo.