Gli echi della tragedia che scuote il Medioriente e il sud del mediterraneo arrivano anche nella linda Salisburgo. E non solo sulla scena, dove l’Ifigenia di Gluck si mostra come fuggiasca lacera che abita una Scizia desolata, fra profughi e miseria. Alcuni mendicanti inginocchiati, ritti e silenziosi, un bicchiere di carta in mano, sono comparsi in mezzo al pubblico in abiti da sera sul piazzale di fronte alla Festspielehaus, durante l’intervallo dell’ultima rappresentazione. Una novità, forse la prima volta nella storia recente del festival più blasonato del mondo, che i più hanno scelto di ignorare. Difficile però schivare il colpo allo stomaco, ritrovando fuori dal teatro gli stessi abiti incolori, le stesse scarpe da ginnastica sporche,le tute e le magliette che Moshe Leiser e Patrice Caurier fanno indossare all’intero cast di Iphigénie en Tauride, a partire dalla protagonista Cecilia Bartoli, al suo debutto con l’opera di Gluck.

 

 

L’intero dramma, con una sacerdotessa derelitta al pari delle altre compagne, mentre solo il crudele Thoas sfoggia un completo da manager, si sviluppa in uno spazio squallido, serrato da un portellone arrugginito: flash di violento impatto visivo, anche nei rituali, che ci ricordano le immagini di guerre e atrocità che rimbalzano incessantemente sui media. Uno spettacolo forte, nato per il Festival di Pasqua, che concede poco al piacere degli occhi, ma segue la narrazione chiedendo molto ai cantanti in termini di impegno fisico. Tuttavia, nonostante la qualità indubbia del progetto registico ( efficacissimo il disegno delle luci di Christophe Foray) lo spettacolo finisce per rientrare in una cifra stilistica piuttosto globalizzata, non dissimile dal Fidelio di Deborah Warner visto alla Scala o di un’altra Iphigénie, montata a Vienna da Torsten Fischer lo scorso ottobre, per fare sue esempi recenti.

 

 

Se la vicenda umana prende violentemente il sopravvento e la tragedia, nel guardare a Euripide, ferisce la carne dei consanguinei, si appanna invece e scompare il gesto classico, la forza solenne del sacro, che pure ha un posto significativo nella vicenda.
Sul piano musicale è un vero trionfo per Diego Fasolis, che si adegua con encomiabile duttilità alla regia, ma senza ancillarità. Con una economia di mezzi lontana dai turgori scultorei della tradizione, Fasolis restituisce un Gluck asciutto, quasi scabro, eppure molto vitale, fitto di scatti dinamici sorprendenti, di insospettabili cambi di colori, con una concertazione attenta a seguire l’inflessione e l’accento della prosodia francese.

 

 

Cecilia Bartoli conferma una volta di più le sue qualità di interprete, che sposano tecnica vocale personalissima e presenza scenica vivida, anche in un contesto così lontano dalle figure elegiache, liete e brillanti che hanno lanciato la sua carriera. I mezzi vocali, non soverchianti, sono ben impiegati nelle arie patetiche e la scena finale del secondo atto ha polarizzato l’attenzione silente del pubblico. L’impeto tragico non è mai esacerbato da gigionerie, nonostante la polpa vocale, se non l’accento, faccia a tratti un po’ difetto. La prova complessiva però è di efficace plausibilità, e gli spazi della Haus für Mozart sono una ribalta molto favorevole. La parte di Pylade sembra tagliata alla perfezione per i mezzi vocali attuali di Rolando Villazon, torrenziale fino all’eccesso stilistico ma magnifico nello scolpire arie e recitativi. A Christopher Maltman, Oreste, va riconosciuta ottima presenza scenica ( cantare gran parte del quarto atto nudo e in ginocchio non è da tutti) e una sicura musicalità. Aspro e cattivo quanto bastava Michael Kraus come Thoas e centrato l’intervento di Rebeca Olvera come Diana, il deus ex machina del finale. Successo pieno, con dieci minuti di applausi e standing ovation.