Non sono più dentro la Striscia ma i reparti corazzati israeliani sono lì davanti, ammassati sulla linea di demarcazione tra Gaza e Israele. Pronti a rientrare e a colpire con forza. Lo ripeteva ieri il generale Sami Turgeman, comandante responsabile della regione sud delle Forze Armate, provando a rassicurare gli sfollati israeliani, ossia gli abitanti dei centri a ridosso di Gaza che nei giorni scorsi avevano lasciato le loro case per trasferirsi in località più sicure. «L’operazione ‘Margine protettivo’ non è finita – ha detto – Le forze dispiegate intorno alla Striscia sono pronte a continuare. Abbiamo completato in pieno la nostra missione e abbiamo localizzato e distrutto tutti i tunnel di infiltrazione». Poco prima il premier Netanyahu aveva elogiato i soldati israeliani e ricordato il sacrificio di quelli caduti in combattimento, poi ha sottolineato il “successo” di Margine Protettivo. Solo che a quel successo sono davvero in pochi a credere nel suo paese. E’ preferibile non precisare cosa si attendessero i cittadini di Israele, o almeno una buon porzione di essi, dall’offensiva devastante andata avanti per quasi un mese e che ha ucciso circa 1900 palestinesi a Gaza, tra i quali centinaia di donne e bambini. Volendo essere soft si potrebbe dire che dietro il totem della sicurezza dei residenti nel sud di Israele si cela il desiderio diffuso di un’offensiva più profonda e letale contro Hamas o Gaza, per molti israeliani è lo stesso.

Netanyahu e i comandi militari riferiscono con orgoglio della distruzione di oltre 30 tunnel, di “infrastrutture del terrore” annientate, di depositi di razzi e armi polverizzati e dell’uccisione di centinaia di uomini di Hamas e di altre organizzazioni armate palestinesi ( e i civili morti?) . “Risultati” che non bastano alle decine di migliaia di israeliani residenti a ridosso di Gaza che affermano di non sentire garantita la loro sicurezza. Il bagno di sangue costato la vita di tanti civili palestinesi non è servito a nulla dal loro punto di vista: Hamas ha subito colpi duri ma è sempre in grado di lanciare razzi e colpi di mortaio, lo ha dimostrato anche nelle ore precedenti alla tregua di tre giorni cominciata ieri alle 8. Israele ha fatto strage di combattenti di “Ezzedin al Qassam” ma il braccio armato di Hamas non ha smesso neanche per un giorno di rispondere colpo su colpo all’offensiva israeliana, nonostante l’incredibile potenza di fuoco del nemico. E se tante gallerie sotterranee sono state distrutte altrettante forse saranno costruite in futuro.   Di fronte a ciò gli israeliani, a cominciare da quelli che abitano nel sud e nel Neghev occidentale, reagiscono puntando l’indice contro il governo Netanyahu incapace di “risolvere” con un vero pugno di ferro il “problema”. Perciò chiedono più forza e più attacchi. Pochissimi israeliani pensano che la soluzione stia nel togliere l’assedio che da anni, troppi anni, con la collaborazione attiva dell’Egitto, soffoca Gaza e i suoi abitanti. Tutti gli esseri umani hanno diritto a una vita vera, in dignità e libertà, anche i palestinesi.

Invece la disumanizzazione sistematica dei palestinesi portata avanti in questi anni ha mostrato nell’ultimo mese il suo risultato più concreto: l’appiattimento quasi totale, della società israeliana sulla guerra come unico metodo di soluzione dei conflitti. Nel 1982, dopo il massacro di 3mila profughi palestinesi a Sabra e Shatila, 400mila israeliani scesero in piazza Malchei Israel (oggi piazza Rabin) a Tel Aviv per dire basta alla guerra in Libano e per chiedere l’apertura di un’inchiesta sulle responsabilità dell’allora ministro della difesa Ariel Sharon. Qualche giorno fa in quella stessa piazza hanno manifestato contro la guerra poche migliaia di persone e tra di esse l’unico deputato ebreo era il comunista Dov Chenin. Di fronte alle scene filmate di bambini palestinesi insanguinati, di uomini fatti a pezzi, di donne che fuggono in preda al panico sotto le bombe e le cannonate, buona parte del paese, o quasi, si lamenta dell’assenza di “risultati” veri dell’offensiva contro Gaza. Lo Yediot Ahronot ieri riferiva le dichiarazioni di numerosi soldati della Brigata Givati, impiegata in Margine Protettivo, che non nascondevano la loro amarezza e incredulità per la decisione del governo di accettare la tregua umanitaria. David Rubin, l’ex sindaco della colonia israeliana di Shilo, ha accusato l’esecutivo di aver “sottratto” la vittoria all’esercito. «Quando combatti una guerra, devi combatterla fino alla vittoria e ottenere una grande vittoria. I politici non hanno ancora compreso tutto questo», si lamentava Rubin sul sito Arutz 7. Parole che non appartengono solo a un uomo di destra, perchè rappresentano il sentire comune in questo momento in Israele.

Ieri cantava “vittoria” anche Sami Abu Zuhri, il portavoce di Hamas a Gaza, sostenendo che i combattenti di Hamas hanno demolito il «potere di deterrenza» di Israele e che la resistenza ha sbaragliato il nemico. Può darsi. Ma Abu Zuhri e i leader di Hamas dovranno riconoscere presto o tardi che alla fine di questa guerra pagata con il sangue di tanti palestinesi, la condizione di Gaza che dicevano di voler cambiare in modo radicale rimarrà sostanzialmente la stessa: una prigione a cielo aperto. Solo un ingenuo può credere che al tavolo dei negoziati la coppia Israele-Egitto darà alla gente di Gaza la libertà che cerca da sempre. L’esaltazione della gittata dei razzi palestinesi e dei successi militari dei combattenti di Ezzedin al Qassam può soddisfare il movimento islamico e qualche rivoluzionario da scrivania all’estero ma è superflua per il progetto nazionale palestinese. E solo un ingenuo può dare piena credibilità all’iniziativa del ministro degli esteri dell’Anp Riad al Malki, volato ieri a L’Aja per chiedere alla Corte penale internazionale di aprire un’indagine contro Israele per crimini di guerra e contro l’umanità a Gaza. La ricattabile e largamente dipendente dalle donazioni occidentali Autorità nazionale palestinese ha un record di repentini passi all’indietro quando si è trattato di far ricorso al diritto internazionale.

Urge la ricostruzione, il ministro dell’economia palestinese Mohammed Mustafa (parte di un governo tecnico di consenso nazionale che sembra esistere solo sulla carta) ieri ipotizzava la convocazione di una conferenza di donatori per l’inizio di settembre. Obiettivo: raccogliere sei miliardi di dollari per Gaza. Una cifra spaventosa e che forse rappresenta solo una parte dei danni enormi subiti dalla Striscia. Dopo un mese di bombardamenti, gli abitanti di Gaza ieri hanno sfruttato la prima giornata reale di tregua per rendersi conto dell’entita’ delle distruzioni e per tornare a una parvenza di normalità, sotto un cielo non più sorvolato da droni e F-16. Si spera per sempre.