Tutto ruota intorno a una mappa di dimensioni ragguardevoli (160 cm di altezza e 96,5 cm di larghezza) che giaceva nei depositi della Biblioteca Bodleiana dell’Università di Oxford, dove era giunta nel 1659 come lascito testamentario dell’avvocato inglese John Selden, insieme ad altri preziosi libri e manoscritti, tra cui il «Codice azteco Mendoza» o «Codice Mendocino» e il cosiddetto «Codice Selden» o «Codice Añute», salito alla ribalta di recente per l’importante scoperta, avvenuta grazie a modernissime tecnologie di imaging iperspettrale, di un raro manoscritto mixteco precedente la colonizzazione delle Americhe, nascosto sotto la patina di gesso che serviva da base per il codice principale («Journal of Archaeological Science»: Reports, vol. 9, Oct. 2016).
Secondo quanto si legge in un codicillo al testamento, Selden ricevette la carta da un comandante inglese che, nonostante gli fosse stata offerta dai cinesi una somma ragguardevole affinché la restituisse, non volle separarsene. La carta subì un primo restauro nel 1919, rivelatosi però disastroso, e un ulteriore intervento nel 2011, assai laborioso e costoso. John Selden fu il più importante storico giuridico e teorico costituzionalista del suo tempo, molto influente presso la Camera dei Lord e la Camera dei Comuni. Non aveva un seggio in Parlamento, ma tutti facevano comunque ricorso a lui per ricevere il suo dotto parere: «i Lord andavano da Selden per conoscere i loro privilegi – recita un aneddoto dell’epoca – e i Comuni per conoscere i loro diritti». Fu anche un grande erudito, bibliofilo e appassionato studioso di lingue e culture mediorientali, «il massimo degli uomini colti celebrati in questo paese» secondo John Milton. Quod Seldenus nescit, nemo scit, «ciò che Selden non sa, non lo sa nessuno», ebbe a dire lo scrittore gallese James Howell. Selden è inoltre ricordato tra i padri fondatori del diritto internazionale marittimo, in un’epoca in cui le potenze navali portoghesi e spagnole, che sino ad allora avevano dominato i mari, dovevano fronteggiare le pretese degli inglesi e degli olandesi che, attraverso la Compagnia Britannica delle Indie Orientali e la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, intendevano contrastarne il predominio per commerciare indisturbati nei mari d’oriente e d’occidente.
La regolamentazione dei traffici marittimi e la definizione della sovranità delle acque prospicienti le coste erano allora tutt’altro che chiare, essendo subordinate alla difesa e all’affermazione di interessi economici e politici d’immensa portata. Fu in quel particolare contesto storico che il giurista e filosofo olandese Huig De Groot formulò, nel suo Mare liberum (del 1609), il principio della «libertà dei mari», secondo il quale le rotte di navigazione e le aree di pesca dovevano essere considerate patrimonio comune dell’umanità e in quanto tale non potevano essere soggette a rivendicazioni di sovranità da parte di chicchessia. Fu questa la concezione adottata dagli olandesi per sostenere il principio del libero scambio, salvo poi venir rinnegata per difendere i propri monopoli commerciali, soprattutto in quelle aree dell’Asia sud-orientale dove la Compagnia Olandese delle Indie Orientali aveva stabilito il suo dominio.
A difesa degli interessi dei pescatori inglesi lungo le coste scozzesi particolarmente ricche di aringhe e delle rivendicazioni della Compagnia Britannica delle Indie Orientali nel Mar Cinese Meridionale fu chiamato uno dei più abili giuristi dell’epoca, John Selden per l’appunto, che nel trattato Mare clausum (del 1635) sostenne la tesi opposta a quella di De Groot: propose che il mare venisse considerato un’estensione della terraferma, sulla quale era del tutto legittimo che gli stati esercitassero la propria sovranità. Come ci fa notare Timothy Brook in un libro di speciale interesse, titolato La mappa della Cina del signor Selden Il commercio delle spezie, una carta perduta e il Mar Cinese Meridionale (Einaudi, pp. XXI-240, euro 26,00), l’argomentazione è la stessa adottata oggi dalla Cina per rivendicare i propri diritti sulle migliaia di isole e isolotti che costellano il Mar Cinese Meridionale e Orientale.
Anche a quei tempi la posta in gioco era alta, gli interessi economici enormi. Basti pensare che intorno al 1660 i vascelli europei che solcavano i mari in cerca di merci e mercati erano più di diecimila; e un numero ancora maggiore era quello delle imbarcazioni asiatiche, più interessate però a tessere commerci regionali che a intraprendere lunghi viaggi verso terre poco note. Influenzato ancora oggi da opposte interpretazioni, il diritto internazionale marittimo fa sorgere rivendicazioni e controversie non sempre facili da conciliare, come dimostrano le attuali contese sul Mar Cinese Meridionale e Orientale che non trovano soluzioni condivise. Oggi come allora, il valore strategico di quel tratto di mare è enorme. Ed è all’interno di queste diatribe che la mappa di Selden sembra acquistare un valore di attualità, essendo la sola carta geografica cinese precedente il XIX secolo nella quale sono raffigurate quelle regioni in modo dettagliato. «Durante la prima metà del XVII secolo – ci fa sapere l’autore – la mappa Selden era la carta geografica più accurata del Mar Cinese Meridionale. Non c’era mai stata una mappa migliore e per altri quattro decenni non ce ne sarebbe stata un’altra. Ma dal punto di vista più ampio della storia della cartografia, la mappa Selden non ebbe mai l’opportunità di dimostrarlo. L’uomo che progettò la mappa aveva scoperto un metodo di rappresentare il mondo partendo dal mare e non dalla terra. Fu un presentimento molto azzeccato, che lo situa a metà strada dal problema della curvatura e che ha avuto come risultato una mappa straordinaria».
In effetti l’esemplare è unico, disegnato su carta da uno sconosciuto cartografo cinese che non si è limitato a rappresentare la Cina secondo i canoni descrittivi dell’epoca, ma ne ha superato i confini tradizionali avventurandosi oltre le frontiere fisiche e concettuali. Timothy Brook non esita a definire la mappa «bellissima, assolutamente unica: un documento storico, un’opera d’arte e un paesaggio mentale… Lungi dall’essere un’arida trascrizione di elementi topografici, animava un intero mondo. Era davvero perfetta».
A dispetto del complesso lavoro di ricerca che l’autore ha intrapreso per trovare risposte convincenti ai numerosi quesiti posti dalla riscoperta della mappa, permangono ancora molti misteri che forse non avranno mai risposte definitive. Tuttavia, Timothy Brook ha dimostrato come sia possibile coniugare il rigore scientifico con la capacità di descrivere realtà complesse con talento di narratore. Come un abile investigatore egli ha indagato in ogni direzione, ha allargato il campo delle indagini fino a includere anche le ipotesi più improbabili, ricostruendo un’epoca e sapendo restituire al lettore il fascino di un mondo esotico e fantastico. Quell’antica raffigurazione di una parte del mondo che si estende dall’Oceano Indiano alle isole Molucche e da Giava al Giappone è soprattutto un pretesto per riportarci a un’epoca piena di fascino e avventure – la prima metà del XVII secolo –, quando le maggiori potenze colonialiste occidentali si battevano, anche militarmente, per il controllo delle rotte commerciali marittime essenziali per l’espansione delle proprie economie.
Erano gli anni delle grandi scoperte geografiche, di cambiamenti che avrebbero modificato per sempre il destino di interi popoli e dato il via a quel processo di globalizzazione che oggi sembra scontato, ma che allora non era nemmeno prevedibile.