Si direbbe che i due ultimi libri di Thomas Pynchon non valevano nemmeno lo sforzo, da parte dell’editore italiano, di trovare un titolo equivalente all’originale. Già Vizio di forma per Inherent Vice è inesatto e fuorviante, ma addirittura incomprensibile risulta la decisione di rendere Bleeding Edge con La cresta dell’onda (traduzione di Massimo Bocchiola, Einaudi Stile Libero, pp. 567, euro 21,00). È un sintomo indicativo, anche perché si accompagna a ottime traduzioni, e non è quindi imputabile a sciatteria editoriale. A volersi spremere il cervello la soluzione ci sarebbe nei libri stessi, acquattata in qualche digressione o in qualche dialogo brillante. Bleeding edge, per esempio, è intraducibile letteralmente ma l’edizione spagnola ha una soluzione molto intelligente: Al límite. Il problema però è un altro: il tasso di irrilevanza raggiunto dalla prosa di Pynchon nelle sue ultime opere è tale da rendere abbastanza vane e accademiche certe disquisizioni. Non è importante il libro, non è importante il titolo.

Fine della recensione? No perché oltre il titolo, sulla copertina c’è pur sempre quel nome, Thomas Pynchon, che per molti di noi nati nel Novecento è sempre stato, e continuerà a essere, il sinonimo stesso della grandezza letteraria e per dirla in una parola del genio, con tutto il suo carico di prodigio, ambizione e follia. Più che di un gusto, come si sa, si tratta di una fede, del tutto incomprensibile, bisogna ammettere, agli occhi di innumerevoli non-lettori di Pynchon, che hanno sfogliato L’arcobaleno della gravità o Vineland ricavandone solo l’impressione di un indigesto e pretenzioso magma narrativo. Peggio per loro? O invece, alla luce degli ultimi libri, eravamo noi che avevamo torto? Non è un problema, e comunque non lo sapremo mai. Ognuno ama i libri che si merita ed è indifferente a tutto quello che non è fatto per lui.

Resta il fatto che Inherent Vice e Bleeding Edge sono due occasioni più uniche che rare per meditare su certe questioni essenziali della scrittura, dell’invenzione letteraria. Se i silenzi di Tolstoj sono eloquenti, come diceva Lenin, altrettanto si può dire, credo, dei fallimenti di Pynchon. E leggere Bleeding Edge può traasformarsi, dall’assoluta perdita di tempo che si annunciava, in una occasione quasi impagabile di conoscenza teorica. Fino a investire le famose questioni ultime di tutta l’esperienza estetica: cos’è un grande artista, cosa lo rende tale, cosa fa in concreto per esserlo? Eccoci dunque di fronte alle cinquecento e rotte pagine di questo libro, Bleeding Edge, ambientato a New York nell’estate del 2001, proprio sull’orlo, insomma, della grande catastrofe. Aspettando l’11 settembre, ne succedono di belle. Correnti elettriche di premonizioni percorrono l’aria torrida, mentre Maxine Tarnow, investigatrice specializzata in frodi, viene progressivamente coinvolta in uno di quei pasticci d’alta classe che riassumere costerebbe un numero di parole pari al libro stesso – come la famosa Mappa dell’Impero di Borges.

Fin dalle prime pagine, si rimane ammirati: la mano del maestro non trema, come se gli anni non fossero passati. E questa è già una notizia. Tutti i talenti di questo impareggiabile signore della parola si fanno riconoscere, strizzano l’occhio al pubblico come altrettante ballerine del varietà in rivista.

La cornucopia delle delizie è spalancata: la sublime arte del dialogo icastico, l’ironia che i nostri nonni chissà perché definivano «sulfurea», l’estro teatrale degno di un maestro dell’avanguardia russa, l’occhio infallibile dell’aquila unito, come in un prodigio mitologico, all’udito fine del pipistrello. E allora? In che razza di paradosso di Zenone o di koan buddista siamo incappati? Se la macchina funziona perfettamente, – dannazione! – perché nello stesso tempo non funziona?

A un certo punto, mentre dal cappello magico del maestro continuano a uscire personaggi memorabili e coinvolgenti segmenti dell’intrigo, non ce ne importa più assolutamente nulla. Può accadere a pagina 78, o a pagina 203 o 340, ma accade. E non può non accadere. Oltre un certo limite, l’incalzare degli eventi e delle informazioni produce un unico effetto possibile, che è un’assoluta indifferenza. Eppure… quel ritmo da vaudeville tarantolato non è lo stesso che anima la grande epopea della Zona, nell’Arcobaleno della gravità, permettendo a Pynchon di raccontare la guerra – e non solo quella – come mai nessuno aveva fatto prima?

Un sinistro sospetto mi conduce fino alle soglie dell’apostasia. Non sarà che avevo troppo sopravvalutato ciò che adesso mi annoia e mi delude così dolorosamente? Ma quando mai. Mi basta riaprire a caso l’Arcobaleno e leggerne un paio di pagine (Londra, pene amorose di Roger Mexico) per ritrovare intatta la potenza, la capacità demiurgica di Pynchon. Questa è una grande lezione che tendiamo spesso a dimenticare.

Quello che chiamiamo «il genio», o «l’ispirazione» o comunque vogliamo chiamarlo, non risiede né nei procedimenti e nelle invenzioni formali, né in determinate visioni del mondo.

Riguardo ai primi, è palese che Pynchon non ha perduto nulla del mestiere, ed esegue in scioltezza tutti i suoi numeri. La sua maniera di interpretare il mondo rimane sbalorditiva per l’intelligenza, la padronanza del complesso, il senso dell’umano che solo i grandi comici possiedono. Eppure questa perfetta replica di se stesso suona fasulla, disertata da quell’energia, da quello slancio vitale che non si sa mai come definire, ma decide di tutto il resto.

La prestazione non basta a ricoprire la nudità del vecchio re. Ed è come se lo stesso Pynchon, costruendo la protagonista di Bleeding Edge, volesse in qualche modo avvertirci del dramma, emettere un delicato ma insistente segnale d’allarme. Perché chi altro è questo simpatico ma pallidissimo fantasma se non una replica in sedicesimo di Oedipa Maas, l’eroina dell’Incanto del lotto 49, il più seducente e rivelatore dei personaggi femminili di Pynchon?

Identici, in Oedipa e in Maxine, sono il supremo accordo della leggerezza e dell’intuito, la capacità di stupore che risorge dalle acque morte del disincanto, la flessibilità della mente alla forma degli eventi. È la lente ustoria del loro intuito a rendere possibile la perfezione momentanea dell’indagine, che forse è solo l’intervallo estatico fra un mistero e l’altro, un fiotto di luce lunare evaso dalle nubi in corsa di una notte tempestosa. Detto tutto questo, bisogna subito aggiungere che Maxine, confrontata a Oedipa, è una bambola rotta. Un puro meccanismo cognitivo che procede a vuoto fra le girandole di un intrigo che non la porterà mai da nessuna parte, dovesse pure trovare la via d’uscita del labirinto, perché ciò che sta dentro equivale perfettamente a ciò che sta fuori, è solo un mondo inondato di parole, privo di quel baratro di silenzio dove tutto ciò che è stato detto ammutolisce e acquista un senso davvero imprevedibile – che è una cosa molto diversa dal colpo di scena e dalla sua irrimediabile ottusità.

Se prorio doveva essere scritto, in fin dei conti, Bleeding Edge l’avrebbe scritto molto meglio James Ellroy, con una tecnica simile ma più efficace, più centripeta. Non posso tacere un ultimo dubbio: e se con questa insignificanza che appare addirittura programmatica il maestro avesse voluto insegnarci ancora qualcosa, non potendolo fare altrimenti? Questa stramba parodia di se stesso e dei suoi imitatori non sarà una forma estrema di ascetismo, un memento mori, una sottile denuncia dell’irrimediabile inutilità di ogni intrigo, di ogni indagine e in definitiva di ogni storia? Così suonano i pii desideri dei fan, dei fanatici.

La verità è che la vita, molte volte, è più lunga dell’ispirazione. E certi re, tutto sommato, se lo possono pure permettere, di fare nudi l’ultimo pezzo della passeggiata.