Per Joan Didion tutto cominciò sul serio quando, nel 1967, il «Saturday Evening Post» le chiese un reportage sugli eventi di Haight-Ashbury, il quartiere nel cuore di San Francisco, non lontano dalla sede della San Francisco State University, dove già da qualche tempo era in corso la lunga Summer of Love del movimento hippie.

Attorno a quell’incrocio di strade (Haight e Ashbury) e al primo Psychedelic Shop del paese avevano preso alloggio, tra gli altri, alcuni gruppi rock: i Jefferson Airplane, i Grateful Dead e Janis Joplin, i Diggers (attivisti anarchici) e Eldridge Cleaver, allora ‘ministro dell’informazione’ dell’appena costituito movimento delle Pantere Nere. Un collettivo variegato su cui Scott McKenzie faceva correre le note dell’invitante San Francisco (Be Sure to Wear Flowers in Your Hair), che ricordava il potere dei fiori e raccontava di «gentle people» arrivata lì dai tanti college statunitensi: «a new generation / with a new explanation».

La San Francisco di quell’estate era un luogo in cui andare: per osservare se non per partecipare.

Nel 1967 Didion, appartenente alla «generazione ‘silenziosa’» maturata negli anni cinquanta, aveva trentatré anni e da undici praticava il giornalismo sulle migliori testate americane. Ma lì, a San Francisco, nonostante la crescente attenzione nazionale alle irrequietezze giovanili, si trovò quasi impreparata a confrontarsi con lo scenario socio-culturale del nuovo fenomeno, e a coglierne – forse – tutte le implicazioni. Le interviste con i suoi ideologicamente disparati e variopinti interlocutori sortirono discorsi spezzati e inconcludenti, luoghi comuni del dissenso, un disegno intellettuale vago; lo spettacolo generale – suoni, luci psichedeliche, street theatre, fumi di canne d’erba e illusioni da Lsd – le apparve la prova di un disordine estraneo all’etica della nazione e, al contempo, sintomo di una patologia strisciante.

«Slouching Toward Bethlehem»: così intitolò quel pezzo anch’esso spezzato, nell’incapacità di ricostruire dalla sua intensa esperienza a Haight-Ashbury una storia coerente, preferendo quindi limitarsi alla presentazione di ellittici fotogrammi narrativi e bozzettistici un po’ univoci, in verità, rischiando l’accusa da parte dei protagonisti più consapevolmente New Left di «media poisoning».

Ma il risultato immediato (un «montaggio» in cui anche la struttura del racconto tradizionale crollava) fu di effetto e consolidò l’inizio del New Journalism di Joan Didion, una cronaca egocentrica fra fiction e non-fiction, che – sia pure con stili diversi – l’avrebbe associata ad altri praticanti del genere, quali Tom Wolfe, Truman Capote e Norman Mailer.

Nel 1968, assieme a precedenti interventi sugli anni sessanta, il racconto hippie entrava a far parte di un volume che ne ereditava il titolo (Verso Betlemme in italiano, 2008), un titolo nobile, perché prelevato da un verso di Il Secondo Avvento di W.B. Yeats, che annunciava, nel 1919, il cedimento del «centro» di fronte a una rivoluzione del ciclo storico procurato dall’avvento della bestia dell’Apocalisse.

Nel 1967, per Didion, la perdita apocalittica del centro sembrava concretarsi nella «controcultura» di San Francisco.

Californiana da cinque generazioni e repubblicana da sempre, Joan Didion conserva tutt’oggi un orgoglio incrollabile delle sue origini radicate a Sacramento, la capitale dello Stato, e dell’etica di duro pionierismo verso il «west del West» (la California d’oro) che il mito californiano ha generato. Più tardi ne avrebbe rivisto criticamente i presupposti (anche famigliari). Ma intanto, sia in Verso Betlemme sia nell’appena uscito The White Album (traduzione di Delfina Vezzoli, Il Saggiatore, pp. 222, euro 20,00), che – fra un romanzo e l’altro – lo seguì dieci anni dopo nel monitoraggio cronachistico, Joan Didion non ha remore (anche sul piano di un malessere personale) nel manifestare le conseguenze del sintomo, la diffusione del virus iniettato dagli anni sessanta e esploso nei settanta in una patologia che la California (vittima) essudava allora a nome della nazione.

Eppure, c’è uno spasimo di diversa consapevolezza quando nelle prime pagine afferma: «Sto parlando di un periodo in cui ho iniziato a dubitare delle premesse di tutte le storie che mi fossi mai raccontata», inclusa, appunto, quella della California.

The White Album riparte dal 1968 con il saggio eponimo – dal titolo dell’album «bianco» dei Beatles di quello stesso anno – e si spinge fino al 1978; si lascia indietro San Francisco e si sposta a Los Angeles (con puntate a Honolulu e Sacramento), muovendosi lungo l’intricato sistema stradale intorno al Loop (l’incrocio delle freeways di Santa Monica, San Diego e Harbor) per inoltrarsi nelle strade dei sobborghi (Hollywood, Brentwood, Bel Air) e quelle più secondarie della «città invisibile».

No, Didion non intende fornirci una guida turistica di LA bensì una percezione – fulminante nelle ellissi e negli accostamenti ideogrammatici – del «disordine» che, nel passaggio fra una decade e l’altra (il mandato governatoriale Reagan), segnò di paranoia l’anima e il mood californiani: «succedevano cose strane in giro per la città. C’erano voci. C’erano storie. Tutto era innominabile ma niente era inimmaginabile. Questo flirt mistico con l’idea del peccato – questa sensazione che fosse possibile spingersi troppo oltre e che molti lo stessero facendo – ci riguardava molto, nel 1968 e nel 1969 a Los Angeles».

È di questo spingersi oltre e di altre eccentricità che si parla nei venti articoli raccolti nell’«album» in un montaggio allucinato, quasi dissociato, che restituisce schegge di cronaca nera, ritagli di atmosfere claustrofobiche in studi cinematografici e sale di registrazione, esemplarità esaltate di «Dreampolitik», e poi, ancora, di riunioni di intellettuali Afro, aule di tribunali, celle di prigioni, supermercati, e grandi «dimore» costose e bizzarre (la nuova casa del governatore, il Getty Museum ).

Eppure, nonostante l’intento di venire a patti con il fuori-centro, Didion non sa (o non può) alienare il distacco (o il pregiudizio) dell’obiettivo del reporter dallo spettacolo cui assiste, tra apostoli del Pentecostalismo e della Scientology, giocatori accaniti di poker, fumosi ingegneri elettronici del traffico, coltivatori di orchidee, appassionati di «bike-movies» (ci viene risparmiata una bocciatura di Easy Rider), movimenti femministi senza progetti concreti, assassini più o meno demoniaci, star del rock/pop con i giorni contati (Janis Joplin, Jim Morrison), e la governatrice Nancy Reagan che coglie un fiore nella sua casa di Sacramento.

Ma il pezzo forte (con il penultimo: «La mattina dopo i sessanta»), quello che fa al tempo stesso da antifona a The White Album e da aspra elegia per Haight-Ashbury, è il saggio eponimo, costituito da quindici brevi flashcut autonomi. Didion gioca in circolo nel presentare a frammenti sparsi la storia di una catena di casi di cronaca nera: si tratta di quattro celebri omicidi, avvenuti fra il 1967 e il 1969, coinvolgenti fra assassini e vittime: Huey Newton, il fondatore delle Pantere Nere; Ramón Novarro (il Ben Hur del 1925); Sharon Tate Polanski e suoi quattro amici; Rosemary e Leno LaBianca; Charles Manson e la sua «famiglia».

Ciò che, tuttavia, lascia sorpresi nella cronaca di questa spirale di sangue sulle colline di Los Angeles è l’intermezzo musicale che Didion fa correre fra le righe: da Lay Lady Lay a Suzanne, Midnight Confessions, Wichita Lineman, Light My Fire, Visions of Johanna … Sono canzoni cult dei «figli dei fiori», convocate in queste pagine a fornire una colonna sonora per l’Album bianco personale di Joan Didion.