Secondo tradizione, la prima settimana olimpica è monopolizzata dal nuoto e prima che il testimone dello sport più seguito passi all’atletica, saranno in molti stanotte a puntare la sveglia per assistere alla sempre emozionante finale dei 100 stile libero. Chissà quanti fra gli aspiranti al podio, compreso il campione europeo Luca Dotto, trarranno ispirazione dalle gesta del primo fuoriclasse della specialità, il mitico Johnny Weissmuller?

Nato nel 1904 in un piccolo villaggio dell’Impero Austro-Ungarico, nell’odierna Romania, appena infante, Weissmuller arrivò con i genitori a Ellis Island e cominciò a nuotare a nove anni per combattere la poliomielite. A Chicago, si divertiva nelle acque del lago Michigan, dove fu notato da un abile talent-scout che lo arruolò nella sezione natatoria della Ymca, la famosa associazione ecumenica cristiana.

L’ascesa fu folgorante. Nel 1922, coprì le classiche due vasche in 58’’6, primo uomo a scendere sotto il minuto, e tenne il record per ben 12 anni, il periodo più lungo mai registrato nella storia della specialità. Era così a suo agio in acqua che spaziava fra le distanze e gli stili. Rimase imbattuto per dieci anni e divenne un idolo assoluto. Erano i “ruggenti” anni ’20, la spensierata età del jazz in America e dopo la fine della Prima guerra mondiale il futuro sembrava radioso. Con la diffusione dei cinegiornali e della radio, nacque la moda delle celebrità e lo sport ne fornì esempi mirabili: Weissmuller venne esaltato al pari di altri eroi statunitensi come il pugile Jack Dempsey, il tennista Bill Tilden e il mito del baseball «Babe» Ruth.

In vista delle Olimpiadi del 1924, si attribuì natali americani e fu ammesso nella selezione che fece rotta per Parigi. Vinse nei 100 e 400 stile libero e nella staffetta 4×200, aggiungendo un bronzo nella pallanuoto. Le polemiche sulla sua nazionalità si placarono e ai Giochi di Amsterdam fu di nuovo l’atleta di punta dello squadrone a stelle e strisce. Nella gara prediletta, solcò le acque con tale scioltezza che il pubblico s’indispettì, scambiando la sua disinvoltura per disinteresse o superbia. Colse così il suo ultimo oro individuale proprio l’11 agosto del 1928, superando l’ungherese István Bárány ed eguagliando il suo stesso primato olimpico. La quinta e ultima medaglia d’oro arrivò ancora nella staffetta.

Come noto, raggiunse fama imperitura da divo del cinema. Nel 1930, era a Los Angeles e si stava allenando per le Olimpiadi di due anni dopo, quando fu scorto da uno scrittore che stava lavorando alla sceneggiatura di un film su Tarzan, il personaggio creato da Edgar Rice Burroughs. La figura imponente e snella, i capelli neri pettinati all’indietro e la mascella squadrata bastarono per guadagnargli un provino con la Metro Goldwyn Mayer. Lo agghindarono con un perizoma, gli chiesero di scalare un albero e di sollevare una ragazza: il ruolo fu suo. Girò il primo film della serie nel 1932 e l’ultimo nel 1947, colonizzando l’immaginario collettivo dell’intero pianeta come il solo “uomo delle scimmie”, l’unico dalle cui labbra potesse uscire, senza suscitare una fragorosa risata, la battuta «Io Tarzan, tu Jane».

Proprio il rango di icona planetaria lo trasse d’impaccio nel 1958, quando si trovava a L’Avana per giocare un torneo di golf fra vecchie glorie. L’isola era attraversata dai tumulti che precedettero l’ascesa al potere di Fidel Castro e un gruppo di guerriglieri circondò i golfisti.

Prima che la vicenda virasse in tragedia, Weissmuller si esibì nel suo grido leggendario: «Tarzan, benvenuto a Cuba!» gioirono i ribelli. L’ultimo omaggio glielo tributarono i Beatles, inserendolo fra le celebrità dell’epica copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, un record che neanche l’ipermedagliato Michael Phelps potrà mai eguagliare.