Il cinema cambia alla velocità della luce davanti ai nostri occhi. Volerne prendere atto o meno, questo è il problema. La saga dei Transformers è la cronaca documentaria dettagliata della principale metamorfosi affrontata dal cinema hollywoodiano. A partire dal 2007, quando Michael Bay mette mano, assieme a Steven Spielberg sui Robot della Hasbro, iniettando nuova vita in una serie che aveva avuto sulla carta anche alcuni tentativi di contatto con l’universo dei supereroi di Stan Lee, l’universo dei Transformers diventa il luogo nel quale il cinema, ancora una volta, mette in scena se stesso. Non è un caso che all’inizio del quarto capitolo, il camion che si rivelerà essere Optimus Prime si trovi in un cinema distrutto e abbandonato provocando così un vertiginoso effetto-canyons. I Transformers sono il discorso sul cinema più radicale e politico prodotto da Hollywood (in assenza di una critica capace di intendere…). Nella saga dei robot muta-forma, Michael Bay ha assunto il carattere metastabile del cinema stesso e l’ha elevato a luogo-narrazione di un cinema malinconico e (auto)riflessivo. Il cinema, macchina che riproduce la realtà, fondata sul rapporto ontologico con il reale, il patto della «cosa vista», filma macchine che non vede più. La macchina (cinema) è cieca di fronte alle nuove macchine. La saga dei Transformers è lo snodo teorico del pensiero «macchinico» di Bay: dove si celebra la palingenesi del cinema come organismo non-più-cinematografico. Il secondo capitolo della serie è addirittura esemplare in questa direzione. La vendetta del Caduto, recita il sottotitolo. Optimus Prime è la macchina antropomorfa per eccellenza. Gli Autobot si vedono come quasi-umani (il cinema dei 24 fotogrammi al secondo). I Decepticon, nomen omen, sono organismi che non hanno bisogno di noi (il cinema venuto dopo il «cinema del reale»). In questo conflitto, dalla riproduzione alla creazione, da ciò che è stato visto a ciò che si può vedere solo al cinema, Michael Bay è come se ci chiedesse di ripensare quanto pensiamo di sapere del cinema. L’ineffabile bellezza dei calcoli in virgola mobile che permettono ai Pixel di combinarsi a velocità inimmaginabili creano, davvero, immagini mai viste. Sin dal primo episodio della serie, nel quale il lunghissimo finale di fatto anticipa la «poetica» dei capitoli successivi, e che sarà amplificato nella «battaglia di Chicago» del terzo capitolo, Bay lavora al superamento dell’idea stessa di blockbuster producendo così un paradossale cinema d’autore retto da ossessioni e temi ritornanti. In ogni segmento della serie, c’è un momento di implosione nel quale i film diventano addirittura opachi nella loro bellezza industriale. Il Transformer che sorge dalla piscina del capostipite, i robot scorpione del sequel che emergono dalla sabbia, la vertiginosa caduta dal grattacielo spezzato in due del terzo episodio, sono la firma di un cineasta che presta un’attenzione ossessiva non solo ai dettagli fisionomici delle macchine ma anche agli ambienti nei quali queste sono calate e agiscono. Un’altra idea di realismo, se si vuole, schiettamente documentaria. Optimus Prime e Megatron (i nomi dei due Transformers sono stati creati da Jim Shooter della Marvel in collaborazione con Denny O’Neil e Bob Budianski) sono la macchina cinema che si scruta nello specchio del digitale. Ed è probabilmente questo l’apporto specifico spielberghiano al progetto Transformers, che esplode in tutta la sua hybris macchinica nel terzo capitolo, il primo in 3D (il Bay astratto al suo meglio…). L’elemento che maggiormente affascina del cinema di Bay è osservare come il suo primitivismo spettacolare diventa pensiero teorico. D’altronde già Marshall McLuhan aveva compreso che la macchina è un estensione del corpo umano (quindi possiamo immaginare i Transformers come «spettacolo» della mutazione del nostro principio di realtà…). Infatti ogni film dei Transformers è un’industria a parte. Un’esposizione universale delle merci (basti pensare ai titoli di coda che assumono le dimensioni di una vera e propria fabbrica). Ci vorrebbe un visionario come Benjamin e un moralista come Burroughs per spiegarci cosa sta accadendo al cinema, «adesso», mentre siamo seduti al buio a contemplare distruzioni che, nei momenti di lirismo più sfrenato, sembrano pure astrazioni pittoriche meccaniche. E anche lo sguardo è «passato». Tra(n)sformato per sempre.