Realismo, ha scritto Walter Siti in un piccolo e prezioso libretto uscito un anno fa e intitolato, significativamente, Il realismo è l’impossibile (nottetempo, 2013), “è quella postura verbale o iconica che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà”. Il realismo, insomma, secondo Siti, non è affatto uno specchio neutro della realtà, non è la registrazione di ciò che semplicemente abbiamo davanti agli occhi, quanto piuttosto è la capacità (narrativa) di catturare la realtà al di là dello stereotipo che essa propone di sé, ribaltando le convenzioni culturali nelle quali essa trova, perlopiù, la sua consolidata e rassicurante rappresentazione.

La parola realismo è girata parecchio alla 71. Mostra del Cinema di Venezia. E la sensazione è che facesse talvolta persino paura. Anzi, secondo alcuni il fatto che non abbia vinto quel capolavoro che è in effetti The Look of Silence di Joshua Oppenheimer – il documentario sul fratello di una vittima dello sterminio di un milione di persone perpetrato dagli squadroni della morte sotto la protezione del governo militare e dei governi occidentali nell’Indonesia alla fine degli anni ’60, il quale si confronta con i carnefici che hanno segnato in modo indelebile la sua esistenza – e abbia vinto invece un film per molti versi surreale come Il piccione di Roy Anderson, avrebbe almeno un po’ a che fare con questo timore. O per meglio dire con la sensazione (che viene vissuta con una certa ansia in quello che veniva chiamato non a caso una volta, il mondo di celluloide) che la realtà, nell’epoca della rappresentazione, nell’epoca dell’immagine onnipervasiva, si divori di fatto qualsiasi narrazione; che il racconto di fiction si perda e disperda all’interno della finzione quotidiana nella quale si muovono le nostre esistenze; che le storie non riescano più in alcun modo a spiazzare, a stupire, che non siano più in grado di costringere lo spettatore assuefatto a qualsiasi forma di messa in scena, a vedere il mondo da una visuale inaspettata e irriverente, inattesa e sconvolgente. Premiare il film-documentario di Oppenheimer, dopo che l’anno scorso aveva vinto quel viaggio anch’esso documentaristico ai bordi della metropoli che è Il Sacro GRA di Gianfranco Rosi, poteva significare proprio questo: certificare l’incapacità del racconto di finzione di colpire al cuore la realtà, di svelarla, di sviscerarla, di illuminarla di una luce capace di portarne in superficie i lati perlopiù nascosti e messi sotto le coperte rassicuranti dell’ordinario televisivo. Premiare The Look of Silence, e dunque ancora una volta un documentario, poteva in qualche modo decretare, non senza pesanti conseguenze, che il cinema si sta sempre più spostando in direzione di una realtà concreta e documentata, pulsante e vitale, lasciando semmai alla televisione (dove anche il reality è giocoforza finzione) e in particolare alle serie televisive (splendide le 4 puntate di Olive Kitteridge, prodotto HBO tratto dal romanzo di Elizabeth Strout e non a caso presentato alla Mostra e accolto con grande entusiasmo) il compito di narrare le storie.

Detta così la faccenda sembra eccessivamente semplificata, ma è per amore di chiarezza e nel tentativo di evidenziare alcuni tratti significativi emerse da questa indubbiamente interessante e ben riuscita edizione della Mostra del Cinema.

Il problema ovviamente non riguarda solo la pellicola di Oppenheimer, che ha evidentemente spaccato la commissione giudicatrice se Tim Roth ha ritenuto di intervenire del tutto irritualmente a commentare il Gran Premio della Giuria assegnato appunto a The Look of Silence. L’elemento documentaristico e il tratto realistico ha attraversato davvero molti dei film presentati in Mostra. Penso ad esempio a Ghesseha (Tales) della regista iraniana Rakhshan Bani-Etemad a cui è stato attribuito il premio per la migliore sceneggiatura. Un film, questo, che ha dovuto fare i conti con la pressione censoria del governo di Ahmadinejad e che per aggirarla, volendo girare nella vera Teheran e non in una Teheran ricostruita o fittizia, ha messo insieme una serie di cortometraggi (per i quali la censura non è così rigida anche per il tipo di distribuzione a cui vanno solitamente incontro) utilizzando come filo in grado di cucire insieme queste storie che si rimbalzano una sull’altra, la figura, appunto, di un documentarista che cerca di filmare la vera Teheran, magari non sempre riuscendoci, ma cercando di entrare comunque nella vita vera di quella città e dunque nelle case, negli ospedali, negli uffici pubblici, nella corriera che porta gli operai a un presidio di protesta. Nella scena iniziale, che prelude a un monologo straordinario di un tassista logorroico, il documentarista punta la camera sul finestrino verso le strade e registra il mondo che sta percorrendo in automobile. Alla domanda stupita del tassista che gli chiede cosa stia filmando, lui risponde, significativamente: “è il mio modo di guardare il mondo”. Come a dire che il mondo, anche quello quotidiano e banale è di per sé un concentrato di storie e dilemmi. Il modello narrativo di Ghesseha, dal punto di vista formale, potrebbe essere Short Cuts di Robert Altman. Così come Altman in quel film intrecciava con formidabile maestria una serie di storie tratte dai racconti di Raymond Carver, offrendo un ritratto esistenziale e sociale dell’America, qui Rakhshan Bani-Etemad fa appunto collidere una sull’altra, come biglie in un gioco a catena, una serie di esistenze per molti aspetti piccole e marginali, restituendo una visione allo stesso tempo intima e politica, e forse tanto più politica quanto più intima, della società iraniana contemporanea. C’è la storia della donna costretta a convivere con un marito violento e alcolista e che trova poi rifugio, problematicamente, dentro una struttura protetta e gestita da volontarie; quella della anziana signora che cerca di ottenere la pensione dopo anni di lavoro in una fabbrica ora svenduta e che si scontra con il muro insensibile delle istituzioni; quella dell’impiegato, servitore dello stato, che deve avere un rimborso per un intervento chirurgico che ha dovuto pagare da sé e che si scontra con un sistema balordo e corrotto, indifferente alle esistenze e alla dignità degli individui; ci sono i lavoratori della fabbrica svenduta che raccontano la disperazione della loro condizione; c’è il marito, disoccupato e analfabeta, che si trova a fare i conti con una lettera spedita dal precedente marito, ricco e detestato, della moglie, che gli viene penosamente e ridicolmente letta dal figlio piccolo. Quello che colpisce, del film, è è appunto la capacità del racconto di trasformare l’analisi spietata della realtà in lirica, facendo anche ridere e sorridere, senza mai staccare l’attenzione da un mondo concreto e determinato dentro il quale, attraverso queste piccole storie, si ha persino la sensazione di abitare.

Altrettanto accade, grazie all’uso ancora una volta quasi documentaristico della macchina da presa, in un film indipendente americano, presentato nella sezione ‘Orizzonti’: Heaven Knows What, dei fratelli Josh e Benny Safdie. Il film è tratto dalle memorie (Mad Love in New York City) di Arielle Holmes, la quale è anche la bravissima protagonista del film. E’ la storia di un amore in un certo modo assoluto e incondizionato, tra due tossicodipendenti: Harley, la protagonista, appunto, e Ilya. Entrambi barboni, entrambi di casa negli stessi parchi e negli stessi marciapiedi di New York, vivono il loro amore disperato anche quando sono lontani, anche quando si odiano, desiderando l’uno la morte dell’altro. I protagonisti, molti dei quali sono attori non professionisti e presi tra i tossicodipendenti con i quali Arielle aveva avuto a che fare, sono raccontati nella loro ripetitiva e sempre diversa quotidianità fatta di buchi, siringhe scambiate, furti, elemosine, litigi, violenza, dolore e amore. E i registi sembrano in qualche modo, con molta delicatezza e senza giudizio, seguire queste vite, filmare questa realtà, appunto, al di là delle convenzioni e dei luoghi comuni con cui essa viene perlopiù guardata, fuori dalle mitologie che pretendono di farne degli eroi o dalle pretese salvifiche di chi guarda con gli occhi di una morale preconfezionata.

Di realismo in un senso forse più classico si può anche parlare in relazione a quello che, insieme al bellissimo Belluscone di Franco Maresco di cui si dirà, è stato forse il più interessante fra i film italiani presentati alla Mostra, e cioè Anime Nere di Francesco Munzi. Un film caratterizzato da una attenzione mai banale ai paesaggi concreti dentro cui si svolge la vicenda di questa famiglia segnata nel profondo e in modo indelebile dalle lotte ancestrali dell’ndrangheta calabrese. Anime nere è una storia di fratelli, di figli e di mogli. Ma soprattutto di fratelli. E in questo riprende la struttura classica delle grandi narrazioni e delle grandi tragedie. Ma lo fa, appunto, con una attenzione accurata e realistica alla lingua dei personaggi, ai loro corpi e ai luoghi delle loro vite, per molti versi inedita nel cinema italiano degli ultimi anni. I tre fratelli della storia incarnano, con le loro maniere, i loro abiti, i loro movimenti quotidiani, tre posture diverse di fronte alla medesima realtà. Tre modi e tre posture che si rivelano comunque tutte tragicamente fallimentari, quasi a dire che, appunto, dentro quel mondo e in quella terra non c’è un modo adeguato per starci. Che ogni modo è fallimentare. Che ogni esistenza è niente rispetto al potere di sopravvivenza dei legami che consentono al sistema dentro cui sono nati di autoconservarsi e autoriprodursi. La lingua calabrese e i paesaggi sono decisivi rispetto al ritmo potente della narrazione e il film sembra porsi, in questo, sulla scia piuttosto che del Gomorra di Garrone, del Piccola Patria di Alessandro Rossetto, presentato alla Mostra l’anno scorso e con il quale condivide, non a caso, l’apporto alla sceneggiatura del bravissimo Maurizio Braucci (sceneggiatore, fra l’altro, anche del Pasolini di Abel Ferrara) e penna perfetta per questa sorta di nuovo realismo del cinema italiano.

Il realismo, dicevamo, secondo la formula di Siti è la postura che è capace di cogliere impreparata la realtà. Non c’è forse definizione più appropriata per il modo, apparentemente stralunato e surreale di guardare il mondo, che restituisce Franco Maresco in Belluscone. Grazie anche alla delicatezza e alla forza narrativa di un Tatti Sanguinetti chandleriano, Maresco indaga con questo film i legami profondi di Berlusconi con la realtà siciliana. E invece di andare alla caccia di atti processuali, sprofonda (letteralmente, verrebbe da dire) dentro il mondo delle feste rionali, riprendendo e facendo parlare l’organizzatore di queste feste, Ciccio Mira (persona reale che nessuna fiction potrebbe credibilmente forgiare), parlando con i cantanti cosiddetti neomelodici, intervistando Marcello Dell’Utri seduto su un trono imperiale e registrando la rabbia contro il fonico quando il microfono smette di funzionare proprio nel momento in cui Dell’Utri sembra lasciarsi andare a confidenze scottanti, ma soprattutto inquadrando gli imbarazzi e le più comiche e inquietanti vie di fuga degli intervistati messi di fronte alla richiesta di dire una parola contro la mafia.

Il testo realista, sono ancora parole di Walter Siti, deve sapersi mantenere in equilibrio fra esigenze contrapposte: in particolare deve giocare con la forma fino a farla apparire sottrazione o assenza di forma; deve cavalcare la dialettica tra prevedibile e imprevedibile, tra dettaglio spiazzante e sensazione di interezza, tra coerenza e anomalia. Sembra, in qualche modo, la descrizione del docu-film di Maresco. Ma è anche, indubbiamente, ciò che regge la narrazione di The Look of Silence e di molte delle cose buone viste a questa 71. Mostra Internazionale del Cinema.

Ed è, forse, questo bisogno di realtà, il segno di una tendenza che appartiene a questo tempo, nel quale ciò che appare come il compito più arduo e difficile è proprio un esercizio critico che non si lasci intrappolare dagli stereotipi, dalle convenzioni e dalle ideologie.