Di personaggi quadrati, seri, coerenti come Dino Zoff il nostro calcio ne avrebbe gran bisogno. In epoca di Mangiabanane Tavecchio e diluvio calcioscommesse, presidenti truffaldini e calciatori che twittano a più non posso, la saggezza del portiere campione del mondo 1982 (ma è stato pure allenatore e ct della nazionale) è un sorso di acqua fresca tra bibite sgasate. Scritta per raccontare la propria vita sportiva ai nipoti (e ai tantissimi tifosi che l’hanno amato profondamente), la sua autobiografia, Dura solo un attimo, la gloria (Mondadori, 170 pg, 17 euro) parte dal profumo dell’erba, dal compagno quotidiano dell’estremo difensore, in tutte le situazioni di eccitazione e di paura. E ripercorre quarant’anni dello sport più amato dagli italiani, vissute da dentro, nello spogliatoio con Sivori («ah , voi portieri! Se non c’erano quei pali, morivate di fame» lo canzonava) e Platini e negli incontri col presidente Agnelli e col vivacissimo Pertini, nell’amico-fratello Gaetano Scirea, «uomo di una serenità e di uno stile autentici» e nel ct di grande umanità Enzo Bearzot, anche lui friulano. «Ho avuto la fortuna di incontrare tante figure importanti che mi hanno lasciato qualcosa dentro. Mio padre era un uomo di grandi qualità morali, la sua serietà, la sua dignità me le sono portate dietro» – racconta, partendo dalla rivalità con Capasciutti della Fiorentina e Bonollo del Padova nella nazionale juniores e terminando con la finale degli Europei 2000, quel suo prendersi le responsabilità in prima persona, con orgoglio e concretezza, quel suo essere «un monumento ai lavoratori».

Un atleta di riferimento per tanti, reso popolarissimo dalla canzone di Fausto Cigliano sulla nazionale di Mexico ’70, «in panchina con Zoooffff» , quasi parola onomatopeica dei fumetti di Paperino, un volo plastico da portierone, anzi «da Nembo Kid», come scrissero i giornali sportivi d’allora. Cosa c’è nella mente di un portiere durante la partita ? «C’è un vento silenzioso che dilata il tempo e comprime la volontà, proprio come si comprime una molla….Di tanto in tanto è chiamato a scattare come un puma, e in quel momento può esplodere tutto, furia, rabbia, potenza, velocità, astuzia, coraggio; ma può farlo solo quando capita, quando lo richiede l’azione, e non quando lo decide lui. Per il resto la sua vita è attesa. Agguato. Compressione». Tutto sta nella testa, anche se usi i piedi e le gambe nel tuo lavoro. È la testa che comanda.

Lo sottoscrive anche Giuseppe Rossi, attaccante della Fiorentina e della nazionale, nel suo A modo mio (My Way) Mondadori, 150 pg, 16 euro) redatto con la giornalista Alessandra Bocci, doppio titolo e doppio passaporto per il ragazzo nato nel New Jersey nel 1987, figlio di una famiglia abruzzese-molisana trasferita oltreoceano, un emigrante che va in senso opposto, dall’America a un gioco prettamente europeo. Pepito (soprannome che gli ha dato Bearzot per la somiglianza nel gioco con Paolo «Pablito» Rossi) sta attraversando un mezzo calvario, dopo una serie notevole d’infortuni cominciata con un crack balordo al ginocchio in un Real Madrid-Villareal. E Firenze è la città che l’ha amato, voluto e coccolato nel lungo percorso tra tutori, macchinari, stampelle e altri aiuti come Pilates, lo yoga, il tai chi. La sua avventura tra i professionisti è segnata dalla figura del padre Fernando, insegnante di calcio a Paterson, che studiava analiticamente il gioco e gli ha trasmesso la passione e l’entusiasmo, oltre alla pignoleria di rivedere le partite per esaminare i propri errori. Talento puro, veloce e fantasioso, italoamericano fiero delle sue radici (alla John Fante, ovviamente citato nel libro), da quel primo gol, nell’ottobre 2005, con la maglietta dei Red Devils alla tripletta alla Juve del 20 ottobre 2013, passando per la doppietta in nazionale alla Confederations Cup con la fortuna di una carriera strepitosa (32 gol in una stagione col Villareal) e la sventura di una battaglia lunghissima contro gli incidenti fisici (il penultimo nel gennaio 2014 mentre era capocannoniere e la Viola andava molto bene). Tra le righe il desiderio di trasmettere ad altri la bellezza del calcio, la libertà di correre con un pallone tra i piedi e la sua volontà d’acciaio di tornare quello di prima, diventando più forte degli infortuni, più forte del dolore, più forte dello scoramento.

C’è una nostalgia lieve e una buona dose d’ironia romagnola in Il toro non può perdere (Rizzoli, pg290, euro18) di Eraldo Pecci, centrocampista nella squadra granata Campione d’Italia 1976, detto Barattolo (per la tendenza ad appesantirsi), battutista e amante dei giochi di parole che racconta la stagione ’75-‘76. Dal considerevole avvio, in quasi contemporanea l’annuncio in tv del suo passaggio dal Bologna al Toro e la sorpresa alla fidanzatina, pescata in discoteca troppo stretta ad un tipo. «Mentre mi infilavo in macchina pensai che a Torino sarebbero stati fieri di me; ero del Toro da due ore e già avevo le corna». E non parliamo del benvenuto dell’allenatore Gigi Radice, «Tela chi la sciura Maria» (ecco qui la signora Maria). Aveva ragione, ero cinque chili sovrappeso e avevo un sedere che faceva provincia». O dei rifiuti di fare i dieci giri di campo al Bologna con Pesaola, «sono un estroso!» «Lei è uno estronzo» era la risposta dell’allenatore argentino (accompagnato da parole di profondo affetto e stima nel libro). Insomma il volume è un atto d’amore verso quella squadra, il Torino dello scudetto, ma anche il felicissimo ricordo di un periodo storico e sociale importante, un quadro coloratissimo di un calcio sanguigno e popolare, allegro e spensierato, con la formazione storica in bella evidenza (Castellini, Santin, Salvadori, Patrizio Sala, Mozzini, Caporale, Claudio Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici) ma anche coi tanti personaggi minori che gli giravano attorno, da Ramsey, l’operaio Fiat che passava i fogliettini prepartita a Radice, a Giorgio Re, esponente del partito liberale e revisore dei conti, la tifosa-amuleto Bagna Cauda, il factotum Forconi e tanti altri.

I ragionamenti dell’Eraldo (che farà più tardi il commentatore sportivo, anche in tv in coppia con Bruno Pizzul) sul Filadelfia, sul presidente Pianelli e su quel certo-non-so-che, l’alchimia di gruppo che portò un gruppo di ragazzotti ben assortiti a vincere il campionato, sono pieni di buonsenso e di spirito d’osservazione per quella Torino, ancora piena di nebbia e sempre bellissima(tra piazza San Carlo, il Palazzo Reale, la Mole Antonerlliana), con tanti luoghi magici, dove era facile trovarsi fianco a fianco nel tavolone di un ristorante, Urbani, con l’impiegato o con l’imprenditore, come fosse un circolo d’amici.